«Vogliono condannarci a vivere dipendendo per sempre dagli aiuti economici del governo». L’accusa degli aborigeni australiani sembra già sentita, ma, stavolta c’è qualcosa di decisamente diverso. Obiettivo degli attacchi, infatti, sono gli ambientalisti australiani, proprio quel gruppo che, secondo l’antropologo Ugo Fabietti, è «tra i più attivi, dagli anni ’70, nel sostenerne la causa agli occhi del mondo».
Motivo dello scontento è un piano per aumentare le aree protette in prossimità dei corsi d’acqua. Si tratta di una legge esistente già dal 2005, il Wild Rivers Act, che consente di limitare ogni attività industriale e agricola in prossimità di specifici corsi d’acqua.
Ad oggi, il provvedimento interessa solo tre fiumi ma, nell’intenzione dei verdi, c’è l’idea di estenderlo ad altri dieci. Ipotesi insostenibile per gli aborigeni, perché l’istituzione delle riserve limiterebbe la possibilità di sviluppo economico delle aree.
Da qui, la protesta, coordinata dall’avvocato Noel Pearson, attivo fin dagli anni ’90 in difesa dei nativi. Sotto attacco è finito anche il governo laburista del Queensland, accusato di sostenere il piano ecologista per non inimicarsi i Verdi. Il ministro dell’ambiente tenta di gettare acqua sul fuoco: «Rispettando alcune condizioni, le attività come l’acquacoltura e l’allevamento potranno continuare».
La condizione degli aborigeni, ad ogni modo, continua ad essere allarmante: secondo dati del Consiglio dei governi australiani, i nativi hanno un’aspettativa di vita inferiore di 17 anni rispetto ai bianchi, un probabilità 13 volte maggiore di finire in prigione e 7 volte più alta che i loro bambini subiscano abusi.