I quattro arrestati sono personaggi legati alle milizie razziste e ultranazionaliste americane e sono stati sorpresi a poche ore di distanza l’uno dall’altro, nella notte tra domenica e lunedì ad Aurora, sobborgo di Denver. L’accusa a loro carico è quella di detenzione di armi e droga. Secondo la stazione locale della Cbs uno dei tre arrestati avrebbe detto ai polziotti che “avrebbero sparato ad Obama da una postazione più alta, usando un fucile di precisione da una distanza di settecento metri”.
Uno di loro, Tharin Gartrell, un pregiudicato di 28 anni, è stato fermato mentre guidava ubriaco durante un controllo di routine. “Andava a zig zag”, ha detto l’agente che lo ha fermato e nel suo veicolo – un pick-up preso a noleggio – sono stati trovati un giubbotto antiproiettile, due fucili (uno dei quali rubato) con dei mirini di precisione, munizioni, droga e diversi walkie- talkie. L’arresto ha portato a un secondo uomo, Nathan Johnson, che si trovava in un hotel situato tra l’Interstate 25 e Belleview Avenue. Alle cinque del mattino il terzo arresto. Shawn Robert Adolf, di 33 anni, si trovava al Cherry Creek Hotel di Glendale, un altro sobborgo della grande Denver. Quando poliziotti e agenti federali hanno bussato alla porta della sua stanza Shawn si è lanciato dal quinto piano, rimbalzando sullla tettoia del primo e cadendo poi a terra e cavandosela con una caviglia rotta.
Adesso è in stato di fermo per sette precedenti mandati di cattura con cauzioni non pagate per un totale di un milione di dollari.
Il detective Marcus Dudley, un portavoce della polizia, si è rifiutato di confermare o meno che i tre fossero davvero coinvolti in un preparativo di attentato in quanto non può parlare di cose che hanno “implicazioni federali”. Ha però aggiunto che adesso il caso è nelle mani del Fbi.
Un testamento politico all’insegna di una “nuova stagione di speranza, speranza per molti, non più solo per pochi”: gravemente malato di cancro al cervello il senatore Ted Kennedy ha passato la torcia delle battaglie decennali della sua famiglia a Barack Obama in un drammatico discorso alla Convention di Denver.
Applausi scroscianti, una vera ovazione. Cartelli col nome Kennedy in mano alla folla dei delegati. Lacrime nella platea e soprattutto nel palco riservato alla sua famiglia. Piangeva la nipote Maria Shriver, nipote del governatore della California Arnold Schwarzenegger, piangeva Caroline, la figlia di J.F.K. che aveva poco prima introdotto un tributo in video allo zio girato dal documentarista Ken Burns. L’ultimo grande di Camelot si è immolato per l’unità del partito, sfidando il consiglio dei medici e della moglie Vicky che lo avevano scongiurato di restare a casa, scalpitando per parlare alla Convention.
E’ stato l’ultimo ruggito – il nono di Ted nella storia delle Convention democratiche – del vecchio leone malato: nonostante la battaglia contro il cancro – un’operazione delicatissima in giugno, radiazioni, chemioterapia – il tono di voce era quello di sempre, e così il piglio, il saluto. Qualche capello in meno, uno sgabello a cui appoggiarsi in caso di necessità: “Vi prometto che il prossimo gennaio sarò in aula alla ripresa dei lavori del Senato degli Stati Uniti”, ha detto Ted, al quale i medici hanno dato al massimo due anni di vita. Kennedy ha parlato per sette minuti: “La speranza sorge ancora e il sogno continua a vivere”, ha concluso dopo aver ricordato ai compagni di partito che “nulla, proprio nulla” lo avrebbe potuto tenere lontano da Denver. I medici gli avevano sconsigliato il viaggio, sia per l’altezza di Denver che per le folle della Convention, pericolose per un sistema immunitario come il suo gravemente compromesso dalle pesanti terapie.
Il senatore era arrivato domenica notte e per precauzione si era fatto ricoverare in ospedale per un check up. Aveva poi passato la giornata chiuso in albergo per riprendersi dalle fatiche del viaggio. All’ultimo momento, convinto di avere le forze per farcela, ha deciso di parlare.