E’ stato insieme un viceré e un ‘king maker’, padrone della Dc di Napoli negli anni ’70 e ’80 e grande tessitore di alleanze tra le correnti democristiane. Antonio Gava, scomparso oggi all’età di 78 anni dopo una lunga malattia, è stato uno dei più potenti uomini politici del dopoguerra. Sarebbe riduttivo considerarlo alla stregua di un "ras" locale, legato esclusivamente alla sua Napoli. Il suo look esageratamente folkloristico (cappello a falde larghe, bastone con manico d’avorio, anello d’oro, sigaro tra le labbra) non doveva trarre in inganno. Quei simboli dell’ uomo di potere locale nascondevano un politico dotato di grande fiuto e altrettanto grande capacità di influenzare le decisioni nazionali del suo partito.
A Napoli e in Campania Gava ha costruito il potere della sua corrente, affiancando il padre Silvio, un veneto arrivato a Castellammare di Stabia negli anni ’20, avvocato e poi senatore e ministro democristiano, morto quasi centenario nel 1999. Il vecchio Gava gli consegno’ idealmente il testimone nel 1972, quando Antonio arrivò alla Camera. Da allora fu ministro per tredici volte, arrivando alla responsabilità del Viminale nel 1990; ma soprattutto fu l’ eminenza grigia in grado di riorganizzare il "grande centro" doroteo e di influenzare la linea politica della balena bianca lungo tutti gli anni ’80, che a posteriori sono gli anni del declino scudocrociato. Per essere eletto segretario Ciriaco de Mita, leader della sinistra democristiana che strizzava l’occhio al Pci, ebbe bisogno del suo appoggio. Ma quando ai dorotei sembrò arrivato il momento di cambiare, De Mita nulla poté di fronte alla decisione di Gava di sostenere Arnaldo Forlani.
Sempre Gava fu tra i registi di quel patto tra Craxi, Andreotti e Forlani che fece nascere il "Caf" negli ultimi anni della prima Repubblica. Un occhio a Roma, impegnato nelle grandi manovre che facevano nascere e morire i governi democristiani al ritmo di uno all’anno, un occhio a Napoli, dove doveva fronteggiare la concorrenza degli andreottiani guidati da Paolo Cirino Pomicino (come scrisse Giorgio Bocca, nel capoluogo campano si affrontavano "la dc del non fare e la dc del fare pur di fare"), Gava sembrava avviato a una tranquilla pensione quando su di lui si abbatté l’infamante accusa di collusione con la camorra.
Era il 1993 quando all’ uscio della villa di Gava all’Eur si presentò un maresciallo con in mano un avviso di garanzia per associazione mafiosa: un camorrista pentito lo accusava di aver protetto il boss Lorenzo Nuvoletta. Tre giorni di carcere a Forte Braschi, poi gli arresti domiciliari dal settembre del 1994 al marzo del 1995 e la sospensione cautelare dall’ordine degli avvocati. Seguirono tredici anni di udienze e sentenze, fino alla definitiva assoluzione con una sentenza irrevocabile. Arrivata la sospirata assoluzione, Gava, difeso dal figlio Gabriele, ha chiesto un risarcimento milionario allo Stato: 38 milioni di euro, così divisi: 3 milioni per non aver potuto svolgere l’attività professionale, 10 milioni per danno fisico, altri 10 milioni per danno morale e 15 milioni per danno di immagine. La sua verità è consegnata in un libro , "Il certo e il negato", con la prefazione dell’amico Arnaldo Forlani.