Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Pierluigi Battista sul comportamento della magistratura in Italia intitolato ”L’eterno ritorno del doppio standard”. Lo riportiamo di seguito:
”Si avverte come un’atmosfera di scetticismo che galleggia (o ristagna) attorno alle conclusioni dell’inchiesta condotta dalla Procura di Milano sui dossier illeciti: 34 persone incriminate, le società Telecom e Pirelli indagate ai sensi della legge 231 e Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora, rispettivamente presidente e amministratore delegato di Telecom all’epoca dei fatti, non indagati. Per ora è solo un’atmosfera, la percezione di un sentimento deluso, di disappunto per il compimento di una traiettoria che si sperava sfociasse in un esito diverso. Si è scritto con un certo rammarico che l’inchiesta sarebbe stata condizionata da un eccesso di «prudenza». Ma se la «prudenza» è considerata una virtù, in un contesto di scetticismo risentito è fatale che in quella definizione finisca per racchiudersi qualcosa che assomiglia all’insinuazione. Cosa vuol dire «prudente »? Forse che, grazie a una condotta più spigliata e meno irretita da mille cautele, l’inchiesta milanese avrebbe potuto approdare a conclusioni diverse e, per così dire, più in sintonia con i presupposti «colpevolisti» nei confronti dei vertici Telecom che non risultano nemmeno indagati?
E invece l’inchiesta condotta dal pm Fabio Napoleone tutto appare fuorché segnata dalla fragilità immaginata dai «mormoratori » dello scetticismo. Vediamola intanto nei suoi dettagli quantitativi, davvero molto eloquenti. L’indagine è durata tre anni, producendo in tutto il suo corso ben 169 faldoni zeppi di atti giudiziari, prove documentali e 246 esposti. Gli interrogatori realizzati durante i tre anni di lavoro ammontano a circa 400, con i principali protagonisti dell’affaire sentiti più e più volte (a cominciare da Giuliano Tavaroli, interrogato ben 15 volte dal settembre del 2006 al maggio del 2007). Gli arresti, tra carcere e domiciliari, sono stati 21. Numerose rogatorie internazionali sono state avviate, come ha riferito sul «Corriere» Luigi Ferrarella, «in Svizzera, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, a Guernsey, nel Principato di Monaco e in Lussemburgo ». Non sembrano, per la verità , i numeri di un’indagine superficiale e poco scrupolosa. Inoltre, nel profilo biografico e nel curriculum del pm Napoleone (già al fianco di Ilda Boccassini nelle indagini sulla «Duomo Connection » sul riciclaggio dei soldi della mafia con la complicità della politica; impegnato nelle inchieste di Mani Pulite nell’hinterland milanese; titolare di indagini su numerose giunte di destra e di sinistra) non è dato rintracciare nemmeno la parvenza di elementi che possano autorizzare sospetti o riserve sulla probità e la correttezza di un magistrato noto per una quasi maniacale attitudine al riserbo e alla prudenza. Sì, la prudenza: quella che è doverosa in tutti, ma proprio tutti, gli atti giudiziari.
Un criterio applicabile a tutti, ma proprio tutti, gli atti giudiziari: questo è il punto concettualmente controverso, il più difficile da digerire per chi ha scelto in tutti questi anni una lettura agonistico-faziosa e gonfia di pregiudizi delle vicende che hanno scandito il rapporto tempestoso tra giustizia, politica e informazione. Un unico criterio di valutazione: ossia l’opposto della pratica sistematica, odiosa perché pregiudiziale, del doppio standard.
La pratica sistematica del doppio standard prevede infatti che se un’inchiesta, un’indagine, un processo conducono a un esito non in linea con le proprie aspettative, allora l’omaggio tributato solo un attimo prima alla integrità e allo spirito di indipendenza della magistratura si scolori fino a svanire. Che poi lo scetticismo finisca per estendersi fino a lambire o coinvolgere Procure, come quella di Milano, mai sfiorate dal sospetto delegittimante, vuol dire che il doppio standard ha infranto ogni argine di coerenza logica. E’ già un paradosso che l’ideologia del doppio standard produca reazioni tanto dissimili in presenza di fenomeni simili. Ma il paradosso diventa ancora più stridente quando l’applicazione di categorie tanto incoerenti non trova più nemmeno una già discutibile giustificazione territoriale come fonte della diversità di giudizio (lo schema delle Procure «cattive» contrapposte a quelle «buone») ma si vede realizzata all’interno della stessa Procura «buona»: il quadro, da compatto che era, si fa screziato, la distinzione tra «buoni» e «cattivi» fa il suo ingresso nel campo prima considerato intatto.
Con il risultato che, nel caso in discussione, alla domanda «come mai nell’inchiesta milanese si è ritenuto di non indagare le persone fisiche dei vertici Telecom?», si stenta a dare la risposta più rispettosa nei confronti della magistratura indipendente, e cioè che il lavoro di tre anni, forte di un apparato documentario imponente e scrupolosamente raccolto, sorretto da testimonianze e riscontri, ha portato i magistrati a optare per quella scelta. Si preferisce piuttosto ricorrere alle formule retoriche dello scetticismo pregiudiziale, al dubbio sulla solidità delle indagini, se non addirittura, come si è visto in questi giorni con un certo clamore, alla fabbricazione parallela di un’indagine giornalistica che si suppone addirittura superiore e più veritiera di quella giudiziaria. Come se davvero la dichiarazione contenuta in un’intervista, ammesso e non concesso che corrisponda alla realtà , fosse come tale sufficiente ad inficiare il lavoro di anni. Pretesa che non può che fondarsi su un pregiudizio. O sulla certezza aprioristica che la magistratura abbia agito in modo lacunoso e parziale: solo perché le conclusioni giudiziarie non soddisfano i postulati di un teorema?
La logica e la coerenza, come è noto, appaiono un’arma spuntata di fronte al ribollire delle passioni politiche che in questo tumultuoso quindicennio italiano si sono aggrumate attorno alle vicende giudiziarie dotate di immediata rilevanza pubblica (e politica). Ma sono l’unica arma ancora a disposizione per contenere gli effetti devastanti che il dogma del doppio standard continua a procurare sull’opinione pubblica, alimento di infiniti pregiudizi. Un obiettivo minimo, che per come si sono messe le cose in Italia sembra avere però la portata di una grande rivoluzione culturale”.
