di Daniele
I miei nonni hanno combattuto in varie parti del mondo nella 2a guerra mondiale e vissuto gli orrori di quell’epoca. I miei genitori e molti dei loro amici e coetanei hanno vissuto in prima persona il ’68 e il fermento, politico, sociale, culturale di quegli anni (a Pavia per la cronaca). Non so se fortunatamente o meno, i nonni non ci hanno mai immerso in racconti di guerra, i genitori non hanno mai indugiato troppo nella nostalgia del tempo che fu né hanno mai tessuto a noi figli lodi sperticate di quella stagione. Noi, i figli, siamo creciuti, abbiamo studiato malgrado lo stato (pietoso si puo’ dire?) delle nostre università, e in alcuni casi siamo emigrati all’estero per trovare lavoro, sempre guardando verso il futuro (sperando fosse migliore del presente). Mi puoi spiegare perche’ a distanza di 63 anni dalla fine della guerra e di 40 (quaranta) anni dal 1968, ancora tutta una generazione (soprattutto intellettuali, attori, autori etc) e’ ancora ripiegata su se stessa e ancora stancamente vuole raccontarci quegli anni formidabili o ancora lancia anatemi sui pericoli dei totalitarismi? Perché i nostri intellettuali sono dotati di paraocchi tali che non guardano alle altre generazioni? La mia per esempio, che emigra da questo paese e va costruirsi altrove un futuro, o quella di molti ragazzi del nostro meridione reduci dimenticati di missioni di pace in mezzo mondo. Nessuno ne parla, pochi ne scrivono e male. Leggo sul Corriere che e’ in uscita un altro film sul ’68. Mi verrebbe da dire basta! A furia di guardare il passato, molti troppi si son fatti scappare il futuro, quello di noi figli peraltro.