E da ministro rispettoso dell’autonomia degli istituti ricorre allo strumento della «moral suasion » per promuovere il decoro a scuola e lo spirito di appartenenza anche attraverso il vestiario, come si usa in Europa. «I problemi dell’istruzione oggi sono altri – dice la Gelmini – ma credo che tutte le iniziative che i singoli istituti prenderanno nella propria autonomia per promuovere la dignità e i valori della scuola, compreso l’orgoglio di appartenere al proprio istituto, anche attraverso l’adozione di regole sull’abbigliamento o di una divisa, siano iniziative utili».
Non si sbilancia Angela Nava, presidente del Cgd, l’associazione che raccoglie le famiglie di sinistra. Sa che i genitori difenderanno comunque la libertà dei figli. «Non si può normare l’abbigliamento dal centro – dice -. Però si possono dare forti indicazioni e per quanto mi riguarda credo che rispetto alle ciabatte e bermuda in classe una camicia ed un jeans decoroso possano diventare una sorta di divisa ideale». «Per fare questo – continua – c’è un’opportunità: il patto di corresponsabilità tra famiglie e scuola introdotto da Fioroni. Se tutti sono d’accordo anche l’abbigliamento può contribuire a creare una nuova cultura della scuola». «Il senso di appartenenza alla scuola lo si ottiene soprattutto attraverso la condivisione di obiettivi educativi, senza imitare modelli anglosassoni – osserva Giorgio Rembado, presidente dell’associazione nazionale dei presidi – tuttavia se le scuole lo ritengono opportuno sono libere di scegliere anche uno stile di abbigliamento, una divisa, sebbene questo sia estraneo al nostro mondo». Anna Oliverio Ferraris, docente di Psicologia dello sviluppo all’università «La Sapienza » di Roma, è favorevole: «essendo una sorta di divisa, riesce a strutturare i bambini come alunni. Li fa sentir parte di una comunità importante. È questo è fondamentale per loro, che devono sentirsi parte di un qualcosa all’interno del quale riconoscersi».