Se sarà riconosciuta colpevole, quanti anni di detenzione avrà come pena e quanti anni di galera effettiva farà la donna che ha gettato via dal balcone un neonato di 15 giorni? E cosa e quanto sarà inflitto in teoria e in pratica alla coppia che ha prima lasciato morire, neanche una vasetto di cibo per bimbi in dispensa, e poi ucciso definitivamente il figlio di diciasette mesi? Cosa rischiano, cosa pagano in Tribunale quelli che stroncano la vita di un bimbo? Decidano pure i Tribunali, malvolentieri ci fidiamo di loro, sappiamo, arriviamo a fatica a capire e tollerare che fidarsi di loro è il male minore. Saranno pene lievi e detenzioni corte a fronte dell’enormità della violenza e del reato. Ma saranno, il paradosso ci graffia l’anima ma non la ragione, pene e detenzioni giuste, a norma di legge. Non è il Tribunale e la galera il luogo dove si esercita la vendetta.
Eppure il conto per questi reati non può chiudersi in Tribunale. Per la legge uccidere un bambino non può essere sostanzialmente diverso che uccidere ogni altro essere umano. Ci può essere un’aggravante ma il conto nella matematica della giustizia più o meno torna. Resta aperto invece il conto in termini umani, la società, noi tutti, dobbiamo nei confronti di chi uccide un bimbo chiedere di più, esigere di più. Non lo facciamo, complici una cattiva sociologia e un’indulgenza culturale solo apparentemente dotta e scientifica. Si legge che quelle madri assassine sono sconfitte dal pianto” del piccolo. Un pianto che non reggono più e che quindi, in un raptus, vogliono spegnere. Al di là delle intenzioni di chi la formula, questa non è una spiegazione, non è capire, è giustificare. si legge che quei genitori omicidi sono il prodotto dello sbandamento e sradicamento sociale e culturale. Si leggono le “spiegazioni” degli esperti, psicologi, sociologi, commentatori di costume che, come sciamani, sono chiamati a spiegare ciò che “spiegato” non va.
Nessun contesto psicologico o sociale esime infatti nessun individuo dalla ineludibile responsabilità di un atto infame come colpire un bambino. Chi lo fa, chi varca questa frontiera, chi infrange questo tabù di sopravvivenza di specie e di dignità individuale non può mai essere perdonato, mai. Dalla società, la cui sanzione culturale nei suoi confronti deve essere piena, immediata, inestinguibile. Chi colpisce un bambino deve sapere che si mette fuori dalla comunità umana ne fuori resta, qualunque sia lo sviluppo successivo della sua esistenza. Può uscire di galera ma non deve più poter uscire dal cerchio in cui la società lo bandisce. Chi uccide un bimbo deve sapere che sta uccidendo se stesso, che se spegne per sempre quel pianto spegne anche per sempre il suo diritto di cittadinanza tra gli umani.
Il pianto di un bimbo, il suo affidarsi e dipendere dagli adulti, il suo essere inerme, il suo diritto ad essere tale. Dove non possono e non devono arrivare i Tribunali deve arrivare la classe dirigente, quella che forgia e orienta i modelli culturali. Dove non possono e non devono arrivare le leggi e i codici deve arrivare la gente. Decretando non l’ergastolo o tanto meno la pena di morte che sono in fondo un modo sommario per sbrigare la faccenda e una maniera pigra per chiudere la partita e i conti. E’ la cultura di un popolo che deve comminare esilio sociale per chi uccide un bimbo o lo tortura per quel poco di vita che il bimbo riesce a vivere. Per rispetto, memoria, amore e memoria di quel pianto di bimbo che altrimenti risuonerà per sempre nella testa di ciascuno di noi dicendoci che non sono stati solo uccisi ma anche buttati via dopo morti.