Ha vinto la ragione. Nel regime degli ayatollah è capitato raramente negli ultimi trent’anni. C’è, dunque, di che esultare. La giovane giornalista iraniano-americana Roxana Saberi, condannata qualche settimana fa a otto anni di reclusione per spionaggio da un tribunale di Teheran, si è vista ridurre in appello la pena a due anni avendo i giudici derubricato il reato per il quale era finita nel lugubre carcere di Evin, a nord della capitale, dove pasdaran e basiji consumano i peggiori misfatti, torture comprese, ai danni di dissidenti politici.
Dopo l’assassinio per impiccagione di Dalara Darabi, avvenuto il primo maggio, imputata di un omicidio mai commesso, c’era da temere il peggio. Fortunatamente la mobilitazione mondiale in favore della freelance, collaboratrice della Bbc e di alcune testate statunitensi, ha indotto i magistrati con il turbante a riconsiderare i danni derivanti al Paese se si fossero ostinati nel perseverare nella loro crudeltà. La Saberi è, dunque, libera poiché la mite pena prevede la condizionale.
Resta comunque un’ombra sull’intera vicenda. L’arresto della giornalista e la parallela esecuzione della Darabi dimostrano, una volta di più, che con l’Iran non è possibile nessun tipo di appeasement da parte dell’Occidente. Non soltanto per via delle folli minacce di Ahmadinejad ad Israele o per il processo di costruzione dell’atomica, ma perché il sistema prevede espressamente la repressione tanto del dissenso quanto del sospetto di trasgredire la legge coranica e la sharia.
Sono numerosi, naturalmente, coloro che non si attengono ai precetti dell’islamismo più intransigente, e non è detto che paghino per il loro coraggio. In realtà il regime vive sulla corruzione e sulla paura; ma anche sull’ipocrisia. Basta salvare le apparenze, insomma, per sentirsi (fino ad un certo punto, comunque), immuni dall’ira degli ayatollah e della loro polizia. La Saberi ha avuto il torto di raccontare quello che vedeva e di tenere in tasca un passaporto iraniano: non poteva sottrarsi alla persecuzione dei custodi della rivoluzione. A differenza di altri suoi coetanei che si possono incontrare negli internet café della capitale o nei grandi alberghi di Teheran Nord, abituati a rispettare formalmente il regime salvo parlane malissimo in privato, la giornalista incappata nelle maglie della giustizia dei mullah ha fatto conoscere al mondo segmenti di verità che dovrebbero far riflettere perfino il presidente Obama il quale recentemente, con eccessiva faciloneria, ha teso la mano al despota-burattino di Alì Khamenei, la guida spirituale che indirizza ferocia e perdono a sua discrezione. Insomma, non è Ahmadinejad l’interlocutore dell’Occidente, ma il successore di Khomeini per il quale l’attuale presidente, pronto a ripresentarsi alle elezioni di giugno, sta diventando ingombrante.
L’Occidente dovrebbe approfittare di questa rottura nell’establishment politico-religioso iraniano per cercare di sostenere il dissenso nel Paese e far circolare quella cultura della libertà sulla quale modulare una possibile resistenza. Certo, i tempi non possono essere brevi, ma quantomeno si darebbe un segnale di non acquiescenza, come spesso è stato fatto dalle organizzazioni internazionali a cominciare dall’Onu, alle sfide iraniane al mondo libero.
La fine del calvario di Roxana Saberi dimostra che è possibile ottenere qualcosa quando la si vuole. Dalara Darabi si è dovuta accontentare di una telefonata ai genitori prima di salire sul patibolo. Speriamo che l’Iran non la dimentichi.