La Clinton annuncia: “Negoziati con la giunta birmana. Le sanzioni non servono”. Il ritorno della realpolitik

Lo show di Ahmadinejad alle Nazioni Unite ha certamente monopolizzato l’attenzione mondiale: nei 35 minuti in cui   attaccava – come da copione – Usa e Israele, il capo del governo iraniano ha però evitato espliciti accenti di odio e antisemitismo. Fatto in sé ragguardevole perché nel linguaggio della diplomazia ha il significato di una cauta disponibilità a riprendere i negoziati sul nucleare e le questioni sul tappeto.

Meno eclatanti ma di sicuro molto istruttive appaiono invece le dichiarazioni rilasciate dal segretario di stato Usa Hillary Clinton a commento dell’attuale stato delle relazioni con un altro dei paesi “canaglia” dello scacchiere asiatico. Quel Myanmar guidato da una giunta militare che le numerosi sanzioni inflitte per le ripetute violazioni dei diritti umani non sono riuscite a scalfire di un millimetro.

Mentre gli alti funzionari del Dipartimento di Stato si affrettavano a sottolineare i grossi passi avanti conseguiti nelle difficili trattative per coinvolgere Russia e Cina in funzione anti Iran, la Clinton, aprendo il dossier Myanmar, ha annunciato un significativo cambio di rotta nella gestione dei rapporti con la giunta birmana. «Crediamo nelle sanzioni, ma finora non hanno prodotto i risultati sperati. Non crediamo alla falsa alternativa negoziati-sanzioni».

La settimana prossima infatti è prevista la visita di un ministro birmano a Washington. È il segnale del nuovo approccio americano nei rapporti bilaterali che segue, peraltro, la rinuncia definitiva ad ogni tentativo di esportare la democrazia con la forza, annunciata da Obama. La Clinton aggiorna in questo modo la vecchia consuetudine diplomatica ispirata alla realpolitik: pragmatismo politico e ragion di stato contro romantiche battaglie sui principi universali o etici.

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Warsamé Dini Casali