LA CONVENTION INCORONA MCCAIN: ”IL CAMBIAMENTO SONO IO”

Usa! Usa! Usa! il grido scandito da migliaia di delegati ha accolto ieri sera John McCain, e lo ha incoraggiato varie volte durante il suo discorso di accettazione della nomination repubblicana per la Casa Bianca. «Accetto con gratitudine, umiltà e fiducia la vostra nomination» ha esordito McCain, che ha anche espresso apprezzamento per il suo avversario Barack Obama e lealtà per il presidente George Bush, e si è lanciato in un peana d’amore per la moglie Cindy. Ma proprio in questi primi minuti, il suo intervento è stato interrotto da tre contestatori infiltrati nel pubblico: due donne e un uomo legati a movimenti pacifisti si sono alzati e hanno agitato cartelli contro la guerra in Iraq. La reazione del pubblico è stata di rumorosa indignazione, ma McCain ha scherzato: «Vorrei continuare a parlare. Smettiamo di gridare e litigare fra di noi!».

E’ cominciato così, con non poca confusione e varie pause, l’atteso intervento del 72enne senatore dell’Arizona, giunto finalmente a realizzare il sogno che gli era sfuggito di mano nel 2000, quando la nomination gli venne strappata da Bush durante una battaglia particolarmente dura. McCain è arrivato sul podio a conclusione di una Convention che lui stesso aveva deciso di tenere in formato ridotto per solidarietà con le popolazioni della Louisiana colpite dall’uragano Gustav. Ha parlato per quasi un’ora, e nonostante la sua capacità oratoria non sia eccelsa, è comunque riuscito a comunicare con lucidità le sue idee e il suo programma: difendere la cultura della vita, credere nella responsabilità personale, nella legge, nel lavoro, nella fede, assicurare la difesa del Paese, ideare una nuova strategia energetica, continuare la guerra contro il terrorismo, confrontare con durezza le ”ambizioni territoriali” della Russia, vincere in Iraq. Ma il tema fondamentale che è scaturito dal suo discorso è stata una profonda contestazione del suo stesso partito, una sofferta ammissione di fallimento : «Eravamo stati eletti per cambiare Washington e Washington ha cambiato noi – ha confessato il senatore -. Abbiamo perso la fiducia della gente d’America».

Eppure, forte della sua fama di ”maverick”, di battitore libero indipendente e un po’ ribelle, McCain ha chiesto al popolo americano di dargli fiducia e affidargli il compito di ”cambiare questo stato di cose”. Proprio lui che da 26 anni vive e lavora a Washington, proprio lui che a 72 anni è il più anziano candidato di sempre, proprio lui si è offerto come l’unico in grado di ”recuperare la fiducia della gente e di nuovo difendere i valori in cui gli americani credono”. «Io non lavoro per un partito – ha aggiunto – non lavoro per gli interessi speciali, non lavoro per me: lavoro per voi».

”Cambiamento”, la parola d’ordine su cui era basata sin dall’inizio la campagna di Barack Obama, è dunque anche alla base della campagna di McCain. E il senatore sostiene che la sua esperienza militare, la sua prigionia, e la sua lunga carriera politica lo hanno preparato meglio di Barack Obama a mettere da parte i rancori per avviare le riforme in spirito bipartisan: «Stenderò la mano verso chiunque mi aiuterà a rimettere in moto questo Paese. Ho l’esperienza e le cicatrici che provano che posso farlo. Il senatore Obama non ce le ha».

Non ci sono dubbi che McCain ieri sera abbia fatto una certa fatica a tenere il podio e a recitare il lungo discorso. E’ più che noto – e lui stesso ci ha scherzato tante volte – che gli interventi davanti alle grandi platee non sono il suo forte. Gli riescono meglio le piccole riunioni durante le quali può guardare in faccia le persone e realizzare un rapporto diretto e immediato. Gli organizzatori della Convention avevano tentato di rendergli il compito più facile, costruendo una passerella che entrava nella sala in mezzo alle delegazioni. Ma il risultato è stato che i due teleprompter di lati del podio erano troppo distanziati e questo ha complicato ulteriormente per McCain la presentazione del discorso, facendogli fare soste nei punti sbagliati e obbligandolo ad accelerare in altri momenti. La fine dell’intervento, che doveva essere un crescendo appassionato, non è stato così incisivo come le parole avrebbero voluto: «Combattete con me! Combattete per quel che è giusto per il nostro Paese. Combattete per gli ideali e il carattere di un popolo libero. Combattete per il futuro dei nostri figli. Combattete per la giustizia e le opportunità per tutti. Alzatevi e difendete il nostro Paese dai suoi nemici. Alzatevi ed aiutatevi l’un l’altro, per questa bellissima, benedetta e ricca America. Alzatevi, alzatevi, alzatevi, e combattete! Siamo americani e non ci arrendiamo mai. Noi non ci nascondiamo dalla Storia, noi la Storia la scriviamo!».

La forti parole della conclusione sono risultate un po’ annacquate nel tono cantilenante del senatore. E alla fine della sera, vari commentatori hanno assicurato che la quattro giorni di St. Paul passerà alla storia come la Convention di Sarah Palin più che quella di John McCain: il discorso con cui la governatrice dell’Alaska aveva accettato la nomination a vicepresidente, la sera prima, era stato di certo più vuoto di contenuti reali e meno ispirato, ma la presentazione era stata impeccabile. Trentasette milioni di ascoltatori hanno sentito la Palin, mercoledì, appena un milione di meno di quanti avevano ascoltato Obama la settimana prima. I dati su McCain li avremo oggi, e nei prossimi due o tre giorni sapremo anche dai sondaggi se la Convention repubblicana abbia accorciato le distanze fra i due contendenti, facendo risollevare le sorti del ticket McCain-Palin. Per quanto la campagna elettorale sia stata lunghissima, comincia adesso la parte realmente importante, e questa durerà poco: tre dibattiti fra McCain e Obama e uno fra Palin e Biden fra il 26 settembre e il 15 ottobre, e poi il voto il 4 novembre. Come ha commentato ieri il politologo David Gergen «I tempi sono molto stretti, e un qualsiasi errore da ora in poi potrebbe essere letale per i candidati, perché non ci sarebbe il tempo di risollevarsi».

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