Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Massimo Gaggi sulle prospettive della campagna elettorale di McCain intitolato ”L’effetto barracuda”. Lo riportiamo di seguito:
”Adesso tocca ai cacciatori di smoking gun (lo scandalo capace di diventare la «sorpresa di ottobre» che condiziona l’esito del voto) e agli strateghi che preparano la battaglia negli Stati «in bilico». Se McCain strappa a Obama la Pennsylvania o il Michigan — zone democratiche ma densamente popolate da bianchi avanti con gli anni, soprattutto operai, che non amano il candidato di colore — potrebbe farcela. Ma, avvertono gli stessi analisti repubblicani, basta che il senatore dell’Illinois «sfondi» in qualche Stato del Sud e del West repubblicano e tutto cambia. E Obama è in testa in Iowa e New Mexico ed è molto forte anche in Colorado, Nevada e Missouri. Con Sarah Palin il candidato repubblicano ha di certo ridato energia alla sua campagna e ha galvanizzato la destra conservatrice, fin qui assai fredda su maverick McCain. Gente che il 4 novembre, il giorno del voto, poteva anche restare a casa.
Ma al senatore dell’Arizona non basta fare il pieno dei voti repubblicani, visto che è arrivato alla nomination nel momento più difficile per il suo partito dai tempi del Watergate. I numeri dei sondaggi dicono che gli americani che preferiscono i democratici superano del 9 per cento quelli che si dicono repubblicani (quattro anni fa i due gruppi erano alla pari). Per la sua storia e le sue caratteristiche politiche, McCain è l’unico, nel partito dell’elefante, in grado di realizzare un’impresa che, vista in un’ottica politica tradizionale, appare proibitiva. Per riuscirci dovrebbe conquistare anche molti indipendenti e qualche democratico col mal di pancia. In realtà quell’impresa è alla sua portata perché la sfida elettorale del 2008 ha ben poco di tradizionale. Anche qui ci sono numeri illuminanti: un sondaggio Nbc Wall Street Journal dice che, attualmente, tra i maschi bianchi della working class, McCain raccoglie quasi il doppio di consensi rispetto a Obama (58% contro 30).
L’entusiasmo dei conservatori per la Palin non è, poi, inferiore a quello generato da Obama tra i liberal. Il discorso della governatrice dell’Alaska di accettazione della vicepresidenza è stato visto in tv da 37 milioni di americani: appena un milione in meno di quelli che hanno seguito la storica serata di Obama, una settimana fa, dallo stadio di Denver. La convention repubblicana, l’altra sera, si è chiusa senza acuti. Prima di affogare la platea in un mare di palloncini mai visto prima (disabili in carrozzella semisommersi, bimbi in lacrime coi genitori che cercavano di farsi largo rompendo con le loro penne il muro di plastica) John McCain ha parlato a lungo, in modo un po’ monocorde, cercando di tranquillizzare, più che di galvanizzare.
Ora che Sarah Barracuda ha assunto il ruolo del «pitbull col rossetto» che azzanna Obama, il vecchio senatore può permettersi i toni pacati, un’oratoria piegata alla monotona esposizione del programma che serve a rassicurare e ad attirare gli indipendenti, l’elettorato di centro. In fondo, uno schema non molto diverso da quello seguito a Denver da Obama, anche se il leader nero era stato più aggressivo con McCain. A due mesi dal voto la corsa rimane, insomma, apertissima. Bisogna vedere come finirà il lavoro degli investigatori che scavano febbrilmente alla ricerca di storie imbarazzanti nel passato di Obama e della Palin. E il modo in cui la crisi economica e il rinnovamento della politica di Washington entreranno nella fase finale della campagna. In teoria Obama dovrebbe essere in vantaggio su tutti e due i fronti: è stato, fin dal lancio della sua candidatura, un anno emezzo fa, l’uomo del cambiamento e la crisi che scuote le famiglie americane dovrebbe giocare a favore del candidato progressista.
Ma l’altra sera McCain è stato abile a tratteggiare uno scenario nel quale un’ondata di statalismo democratico porta a una dilatazione della spesa pubblica e a livelli di assistenzialismo che fanno perdere competitività all’America. Il messaggio è chiarissimo: un presidente pronto a bloccare con una raffica di veti l’epidemia di provvedimenti «tassa e spendi» di un Congresso democratico è un’assicurazione contro il disastro. Quanto al rinnovamento, McCain, che è un protagonista della politica di Washington da un quarto di secolo, ha recuperato la sua fama di riformatore radicale chiamando al suo fianco la Palin e tornando a indossare i panni del maverick, il battitore libero deciso a ricostruire dopo aver demolito la politica clientelare radicata anche (anzi, soprattutto) nel suo partito. È stato il passaggio più coraggioso del suo discorso. Ma non è detto che tutto questo gli basti”.
