Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Piero Ostellino sulle tentazioni espansionistiche della Russia. Lo riportiamo di seguito:
”Governi, media, opinione pubblica occidentali rischiano di commettere, oggi, lo stesso errore che la migliore sovietologia americana aveva rimproverato, agli albori della guerra fredda, alla politica di Washington: ritenere che le tentazioni espansionistiche della Russia siano attribuibili alla natura non democratica e illiberale dei suoi governi. Nell’ immediato dopoguerra, sarebbe stato saggio tenere separati l’analisi del comunismo— come filosofia della storia che si proponeva di cambiare il mondo— da quella della politica estera sovietica, che si preoccupava di difendere gli interessi nazionali dell’Urss.
Oggi, sarebbe altrettanto saggio capire che il regime non democratico e illiberale della Russia di Putin è una cosa—un sistema capitalistico senza regole, nato senza la formalizzazione di un sistema legale (costituzionale) — e il suo dinamismo internazionale è un’altra, la conseguenza della sindrome da accerchiamento di cui la Russia post-sovietica soffre, ora, come soffriva, ieri, l’Unione Sovietica. È ciò che si dice distinguere i fatti — come accadono e che dovrebbero essere il campo della politica estera—dalle «percezioni », il riflesso ideologico degli uomini che vi sono immersi. Ad alimentare la politica estera dell’Urss dei primi anni della guerra fredda fu l’analisi leninista dell’imperialismo capitalista; oggi, a determinare quella della Russia post-sovietica è l’interpretazione della globalizzazione americana; domani sarà la paura del «pericolo giallo».
Per Mosca, il modo di esorcizzare la sindrome da accerchiamento è sempre lo stesso: «tenere lontani» i potenziali aggressori. Da Napoleone a Hitler, l’estensione del proprio territorio è stata, e rimane, per i russi, la migliore difesa. A sua volta, l’Occidente interpretò la presa dell’Urss sull’Europa centrale e orientale e la guerriglia dei comunisti greci—peraltro ben presto abbandonati da Stalin alla repressione inglese — come l’inizio della rivoluzione comunista mondiale e vi reagì con la «politica del contenimento». Ciascuna delle parti formulò stereotipi ideologici dell’ altra, mascherando la vera natura del conflitto. Il risultato fu un ciclo di reazioni che acquistarono vita propria. Come oggi sulla Georgia. Ha scritto Vissarion Belinskij: «La nostra gente intende la libertà come volja, e volja significa seminare discordia. La nazione russa, una volta liberata, non punterebbe a un parlamento, ma correrebbe nelle taverne a bere ».
Il severo giudizio dell’ottocentesco pubblicista russo riflette una verità che la storia ha confermato: gli uomini non nascono liberi e sono ridotti in schiavitù dal vivere insieme (come credeva Rousseau), ma conquistano la libertà solo grazie alla legge (come scriveva Locke). La Russia non fa eccezione. L’esplosione di un capitalismo primitivo — il popolo russo è stato derubato due volte: dalle nazionalizzazioni sovietiche, prima; dalle privatizzazioni post-sovietiche, dopo — non ha prodotto democrazia, come si erano illusi i professorini di Harvard, ma anarchia sociale ed economica e un autocrate politico, ex Kgb, il vod della tradizione russa, che la gestisce da par suo”.
