Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Franco Venturini sulla situazione nello Zimbabwe intitolato ”Il silenzio su Mugabe”. Lo riportiamo di seguito:
”I massacri che passano sotto silenzio in Congo, la strage del Darfur che continua, la mattanza tra bande rivali e forze straniere in Somalia. L’Africa brucia, come sempre. E sta per inventare, se il tiranno Robert Mugabe ignorerà fino in fondo le pressioni internazionali, una formula politica del tutto inedita: il ballottaggio presidenziale con un solo candidato.
Pensieri da riva nord potrebbero indurci ad alzare le spalle davanti a fatti lontani e oscuri. Ma così facendo sbaglieremmo di grosso. In Africa si gioca una determinante partita geopolitica ed energetica tra Cina e America mentre Russia e India cercano spazio. In Africa è stata individuata la «nuova frontiera» di Al Qaeda. In Africa si vanno consolidando aree di forte crescita che potrebbero risultare utili alle stanche economie europee. In Africa rimangono terribili serbatoi di fame e di disperazione, di esseri umani pronti a morire pur di tentare l’approdo a Lampedusa e dintorni. L’energia, la sicurezza, l’economia, l’immigrazione clandestina: è forse lontana da noi, questa Africa? E in un continente dove la democratizzazione ha comunque fatto progressi, faremmo forse bene a voltarci dall’altra parte davanti allo scempio dello Zimbabwe?
La sfida lanciata da Robert Mugabe, ben al contrario, diventa un test: importante per l’Occidente, e fondamentale per gli africani. Soltanto Dio può togliermi il potere, afferma il dittatore di Harare mentre fa incarcerare o uccidere i suoi oppositori. Ma poi, forse proprio perché l’Africa è cambiata, oppure perché gli è rimasta una vaga traccia delle regole britanniche da lui stesso sconfitte nel 1979, Mugabe pretende dalle urne una paradossale legittimazione. Ed è qui che gli africani, prim’ancora della comunità internazionale, hanno l’occasione di punire il tiranno e di affermare se stessi.
Evocare un intervento militare esterno sia pure «di pace», come ha fatto il capo dell’opposizione Morgan Tsvangirai, è per il momento pura retorica. Ma la legittimità del potere, quella sì può essere strappata a Robert Mugabe. È l’alone da ultimo sopravvissuto della lotta anticoloniale, sono le sue false credenziali di generoso padre della patria che vanno cancellate al cospetto delle crudeli repressioni degli ultimi mesi. E sono gli africani a dover provvedere.
Certo, l’Occidente farà bene a studiare sanzioni più mirate e più efficaci di quelle in vigore. Ed è positivo che Cina e Russia abbiano sottoscritto la condanna dell’Onu. Ma se non saranno gli africani a considerare illegittime le elezioni di domani, se non saranno loro a promuovere un ricambio di potere a Harare o almeno un governo di transizione, se non saranno loro a isolare il tiranno che ha portato l’ex ricco Zimbabwe all’80 per cento di disoccupazione e al milione per cento di inflazione, l’Africa avrà mancato una grande opportunità. E l’avrà mancata anche il presidente sudafricano Mbeki, che più di tutti possiede l’influenza e i mezzi necessari per accrescere la legittimità africana negando quella di Mugabe.
Non sarà facile, proprio perché Mugabe è stato un eroe dell’anticolonialismo. Ma se l’Africa ce la farà come è nel suo interesse, se riuscirà a tagliare il cordone ombelicale ormai impresentabile che accosta Mugabe ai miti veri e falsi del riscatto indipendentista, allora anche agli ex colonialisti si imporrà qualche riflessione.
Il pensiero convenzionale vuole che il colonialismo abbia lasciato in Africa qualche opera, un vuoto di classe dirigente e confini forieri di violenze inevitabili. Tutto vero, ma non è vera, nemmeno in questo caso, la presunzione di impotenza che ne deriva. Se la Fao convoca un vertice sulla fame e poi resta al palo, è perché il doppio protezionismo degli americani e degli europei blocca ogni progresso. Se gli aiuti all’Africa si disperdono in mille rivoli, è perché i politici occidentali preferiscono i proclami e le grandi cifre a un impegno serio e programmato. Se in Darfur i massacri continuano, è perché alla più grande forza di pace mai varata dall’ Onu continuano a mancare i due terzi degli effettivi e nessun Paese occidentale è pronto a contribuire.
Senza avere paura dei fantasmi della storia, l’Europa ex colonialista dovrebbe riconoscere di non avere una politica africana diversa dalla cura di alcuni interessi energetici e dai «gesti» umanitari. Invece una politica africana serve. E significa prevedere che gli africani vengano aiutati — di più — ma garantiscano in cambio livelli minimi di governance economica e politica. Significa incoraggiare le democrazie (senza «esportazioni» in punta di baionetta) e isolare i tiranni. Significa non permettere che i governi dei Grandi screditino l’Onu salvo poi metterla sotto accusa. Persa la speranza sul Darfur, è lo Zimbabwe il nuovo banco di prova”.