Il Corriere della Sera pubblica un editoriale di Angelo Panebianco sulle cause e gli effetti della vittoria di Obama intitolato ”Una societa’ aperta”. Lo riportiamo di seguito:
”Nessuno oggi può sapere che cosa farà il nuovo presidente, che cosa diventeranno gli Stati Uniti nell’era di Barack Obama. Ma tutti, persino i tanti nemici dell’America sparsi per il mondo, sono costretti a riconoscere che la democrazia americana continua ancora oggi a disporre di doti che nessun’altra comunità politica possiede. «Se qualcuno pensava che l’America non fosse il Paese ove tutto è possibile…». Le parole con cui Obama ha iniziato il suo patriottico discorso di ringraziamento alla nazione che lo aveva appena eletto rendono perfettamente il senso di ciò che è accaduto.
Un giovane senatore afro-americano, di poca esperienza politica, con un passato di simpatie radicali e un background da outsider si è dapprima imposto contro un establishment democratico che gli era ostile, sconfiggendo alle primarie un cavallo di razza come Hillary Clinton, e ha poi conquistato la Casa Bianca contro un avversario di grande valore come John McCain (il cui spessore politico e la cui tempra morale, per inciso, tutti, anche quelli che gli erano ostili, hanno potuto misurare ascoltando il bellissimo discorso con cui ha riconosciuto la vittoria di Obama, e ha invitato i repubblicani a stringersi intorno al nuovo presidente).
È vero in generale che in tempi di crisi le personalità carismatiche hanno più probabilità di affermarsi. E, senza dubbio, la gravissima crisi finanziaria, con i suoi pesantissimi effetti sull’economia americana, ha favorito l’outsider Obama. Il successo del suo stile profetico e l’entusiasmo che ha suscitato in una parte così ampia degli Stati Uniti non sarebbero stati possibili senza il senso di smarrimento e la paura per il futuro che attanagliavano la società americana già prima che (sono passate solo poche settimane) la crisi rivelasse tutta la sua gravità con i fallimenti bancari e il crollo di Wall Street.
E, tuttavia, questo risultato non sarebbe stato comunque possibile se l’America non fosse ancora, nonostante tutte le sue trasformazioni, ciò che i suoi Padri Fondatori vollero che fosse: una società aperta e libera e una democrazia autentica le cui istituzioni non hanno subito l’usura del tempo e nella quale è sempre possibile per gli outsider di valore farsi strada ed affermarsi.
Centocinquant’anni dopo l’abolizione della schiavitù, cinquant’anni dopo la fine della segregazione razziale, un nero arriva alla Casa Bianca e sana così la frattura più grave, in passato sempre giudicata da tutti insuperabile, della storia degli Stati Uniti, quella che appariva come la principale macchia, il difetto peggiore, della democrazia americana. Almeno per ora il sogno americano ne esce vivificato e rinvigorito.
È sperabile che una ricaduta della vittoria di Obama consista, per lo meno in questa Europa che ha così tanto mostrato di apprezzare il neo-eletto presidente, in una maggiore disponibilità da parte di molti (per esempio, da parte di quei tanti intellettuali che l’America l’hanno sempre detestata senza comprenderla) a sforzarsi di capire qualcosa di più della società americana, della sua storia, della sua cultura politica, delle sue istituzioni. Un compito difficile, impegnativo, dal momento che per tanti europei l’America, con la sua storia diversissima dalla nostra, è sempre stata un enigma. Detestabile proprio perché incomprensibile. Detestabile per quel suo impasto di patriottismo e di religiosità così lontani dalla sensibilità di molti europei.
Detestabile per il suo individualismo. Detestabile per la sua disponibilità a tollerare livelli di disuguaglianza economica e sociale superiori a quelli tollerati in Europa. E detestabile anche per ciò che di quella disuguaglianza è sempre stata la contropartita: la mobilità e il dinamismo, alimentati dalla fiducia, propria di una società individualista, che a ciascuno sia possibile, almeno in linea di principio, innalzarsi contando sulle proprie forze e capacità anziché sulla protezione dello Stato. Le anchilosate, oligarchiche e demograficamente invecchiate società europee applaudono Obama ma in quell’applauso si nasconde un paradosso. Poiché la vittoria di Obama (ma anche la corsa del suo avversario McCain) mette in risalto ciò che rende l’America irrimediabilmente diversa dall’Europa. Perché nelle chiuse società politiche europee un Obama o un McCain (anche lui un outsider nella sua parte politica) non avrebbe nessuna chance.
Il neo-presidente dovrà fronteggiare immani problemi. Dovrà aiutare l’America a uscire dalla crisi, dovrà imparare a muoversi in un mondo ormai multipolare e dovrà contemporaneamente cercare di contrastare (in Iraq, in Afghanistan e in altri luoghi) potenti forze destabilizzatrici.
La «Repubblica imperiale» americana acquisterà certamente, con Obama, un nuovo stile. Ma i segni del passato saranno comunque visibili. Forse Obama ripercorrerà, in condizioni mutate, le orme di Franklin Delano Roosevelt (il presidente del New Deal), forse si ispirerà anche ad altri presidenti democratici, come Woodrow Wilson, con il suo idealismo internazionalista, o forse sceglierà non l’isolazionismo (oggi impossibile) ma un parziale ripiegamento, di tipo jeffersoniano, una parziale e selettiva riduzione dell’impegno americano nel mondo. Non lo sappiamo ancora. Sappiamo però che, quali che saranno le virtù e gli errori della nuova.
Amministrazione, di sicuro non ci saranno rotture radicali, non ci sarà alcun congedo dalla tradizione americana. Finita la luna di miele, quelli che detestavano l’America ricominceranno a detestarla e quelli che l’amavano continueranno a farlo. Per le stesse ragioni”.