Le lingue sono un fattore chiave della lotta politica per il predominio. Se l’inglese non avesse, nella sua variante americana, conquistato il mondo, in pochi assegnerebbero oggi all’Inghilterra una posizione dominante nello scacchiere politico. Allo stesso modo, l’estensione e il volume degli ispanofoni sembra assicurare alla Spagna un’influenza che, politicamente e militarmente, perse quasi duecento anni fa.
In modo diverso e complementare, ogni volta che la questione della lingua è riproposta, si agita dietro di essa una questione nazionale. Gli annunci ad effetto dei quadri leghisti sullo statuto dei dialetti ne sono il più attuale esempio. Per decenni i dirigenti francesi da De Gaulle a Chirac hanno voluto ignorare la schiacciante supremazia inglese per tentare una politica di francofonia che portasse il francese al livello di prestigio dell’inglese.
La Russia è stata a lungo il cuore di un impero, zarista prima, sovietico poi. Questo impero, “la quinta parte del mondo” recitava orgogliosamente un documentario russo, basava la sua coesione in maniera fondante sull’insegnamento del russo. Da Berlino Est fino a Samarcanda, da Kiev fino a Vladivostok, i figli del socialismo comunicavano nella lingua di Puskin e Dostoevskij. Gli effetti di questa politica possono sentirsi ancora oggi, a distanza di vent’anni dalla fine del comunismo. La relativa vicinanza tra Germania e Russia che ha caratterizzato il mandato di Angela Merkel nasce anche dalla conoscenza del russo di quest’ultima.
Ma oggi Mosca non comanda più un impero e gli ex paesi satelliti hanno trovato, o stanno faticosamente perfezionando, la loro indipendenza. La questione della lingua è sempre più brandita come arma politica e misura simbolica per tagliare gli ultimi residui di dipendenza dal gigante russo. Il governo ucraino, guidato dal filo-occidentale Viktor Yushchenko, ha recentemente aumentato gli ambiti in cui l’ucraino sarà l’unica lingua officiale ammessa (la disputa non è solo una questione linguistica in un paese in cui intere regioni sono abitate da maggioranze di russofoni). Misure simili sono state prese in paesi diversi come il Tagikistan e le repubbliche baltiche.
Il russo è, tra le lingue più parlate, quella che perde il maggior numero di locutori. Nel 1990 erano 300 milioni, saranno la metà nel 2005.
Il solo campo in cui il russo non perde colpi è nel commercio. La lingua franca del comunismo riceverà almeno un piccolo aiuto dal mercato capitalista.