Due cuori, una casa e niente nozze. A prima vista dalle statistiche si vede poco, ma, leggendo tra le righe e le cifre, ci si accorge che le nuove generazioni stanno avviando l’Italia verso una rivoluzione culturale e di costume simile a quella di Usa, Francia e perfino paesi scandinavi dove più della metà delle coppie convive senza o prima di contrarre matrimonio.
E vissero, comunque, più o meno per sempre conviventi e contenti. La favola di un matrimonio per una donna su tre tra quelle nate alla fine degli anni ’70 è un sogno da lasciare volentieri nel cassetto. Meglio la convivenza, fenomeno sociale in crescita nel nostro Paese. Dal 2001 al 2007, dicono i dati Istat, c’è stato un aumento dell’1,5 del totale delle coppie che hanno fatto questa scelta. Anche se la percentuale ufficiale per ora resta bassa (solo il 5 per cento delle coppie conviventi non sono coniugate), i dati sul dimezzamento dei matrimoni (da 400 mila a 250 mila l’anno) inducono a pensare che la realtà sia ben diversa. Anche perché i numeri ufficiali contano solo coloro che per qualche motivo, come il rilascio di un certificato, abbiano interagito con l’amministrazione pubblica.
Convivere è la decisione presa dal 6,8 per cento delle coppie nell’emancipato nord est, dal 4,8 per cento di quelle delle regioni del centro mentre quelle del sud più legate alla tradizione rappresentano solo il 2 per cento del dato totale.
Demografi e sociologi distinguono quattro tipi diversi di convivenze. Ci sono le convivenze prematrimoniali sostitutive del periodo di fidanzamento, vissute come una sorta di prova da superare per arrivare pronti e preparati al matrimonio. Ci sono poi le coppie di fatto dovute a impossibilità a contrarlo, come adulti già sposati e non ancora divorziati, persone di mezza età che non vogliono perdere con un nuovo matrimonio vantaggi pensionistici, fiscali o patrimoniali, coppie omosessuali (che per legge in Italia non possono sposarsi). Al terzo posto le cosiddette unioni libere, di chi sceglie di vivere “free” e non sopporta regole e formalità. E, infine, c’è chi desidera un patto di solidarietà alternativo al matrimonio secondo una tendenza descritta in Francia già quindici anni fa dalla sociologa del diritto Irène Théry nel volume «Demariage» (unioni civili che prevedono meno diritti, meno doveri).
Anche se la legislazione italiana in quel settore è ancora confusa. Sono sei i disegni di legge per le unioni di fatto tra cui l’iniziativa dei ministri della Funzione pubblica Renato Brunetta e dell’attuazione del programma Gianfranco Rotondi che intende disciplinare «i DIritti e i DOveri di REciprocità dei conviventi», (Didore) in materia di salute e per il caso di morte, il diritto di abitazione, la successione nel contratto di locazione e l’obbligo alimentare. Per il momento, il progetto giace in commissione Affari sociali alla Camera, ma sarà “scongelato” dopo le elezioni amministrative ed europee.
In attesa di una nuova legge, da tempo molti comuni e molte regioni hanno stabilito pubblici registri di convivenza. Anche se la maggioranza delle convivenze, per il Censis, sono costituite «da chi non vuole dare nessun tipo di regolarità alla propria vita» (20%) e (40%) da chi «non intende stabilizzare l’unione per motivi pratici che hanno a che fare con il fisco, con il patrimonio e con la sistemazione futura dell’eredità o per non perdere l’assegno di mantenimento proveniente da un precedente matrimonio». Per questo, a differenza di quanto è avvenuto per l’aborto, e per il divorzio, sostiene Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, «non c’è pressione sociale per una regolazione delle convivenze».
( * Scuola superiore di giornalismo Luiss)