Un finale triste e solitario viene scritto alle 12 e 20 minuti nell’aula di palazzo Madama.
Non perché i tacchini- senatori hanno cominciato ad apparecchiarsi il loro ultimo pranzo di Natale. Ma perché un giorno, sulla carta, di orgoglio e potenza politica (di Matteo Renzi) è invece una mezza vittoria. O una mezza sconfitta..
“Avremo una larga maggioranza, ben oltre i 200 voti” diceva Matteo Renzi un mesetto fa. Prima che in aula venissero fuori, in chiaro, tutte le critiche al disegno di legge di riforma costituzionale. Critiche legittime e fondate che non vanno confuse con l’ostruzionismo degli emendamenti e della burocrazia delle regole.
Ragionava, Renzi, su 230 voti – sul totale dei 320 senatori –, la somma dei numeri figli del patto del Nazareno, dell’alleanza Pd-Forza Italia più cespugli vari, Ncd, Popolari, Udc, Scelta civica. Il guaio è che oggi gliene sono rimasti solo 183, un numero appena sopra la maggioranza semplice (161), ben lontano dai 2/3 (212) necessari nei passaggi finali per evitare il referendum confermativo.
I maligni dicono che sapendo questo il ministro Maria Elena Boschi ha annunciato che “in ogni caso ci sarà il referendum conservativo”.
Finale triste e solitario nei numeri perchè sono 16 i contrari nel Pd, 19 in Forza Italia, 6 di Gal, 8 di Ncd. E nelle immagini: aula mezza vuota con i Cinque stelle che escono disciplinati in fila indiana, Lega e Sel che non partecipano al voto, le facce imbarazzate nei banchi del Pd. A cominciare da quella della relatrice e presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro. E del capogruppo Luigi Zanda. Non volevano che andasse così.
Finale triste e solitario nelle parole, non quelle urlate ma quelle ascoltate in un’aula muta e finalmente attenta.
La senatrice a vita Elena Cattaneo critica “lo scarso ascolto e il linguaggio usato dal governo: allucinazioni e professoroni sono parole che nascono da un approccio culturale sbagliato”. Attacca il metodo (“troppo condizionato dal governo e da logiche di partito”) e il progetto (“tecnicamente pasticciato e frettoloso”).
Le parole di Roberto Calderoli che denuncia “le pressioni di questi giorni e gli squilibri gravi nel testo” e quelle di Walter Tocci (Pd) che finalmente dà fiato a quanto finora detto solo in maniera sommessa: “Se Berlusconi avesse fatto la metà di quello che viene approvato oggi qui saremmo in piazza da mesi. Ci voleva l’uomo nuovo per attuare il programma delle vecchie classi politiche”.
E quelle di Vannino Chiti che ha criticato metodo e merito e ha aggiunto: “Il Patto del Nazareno, l’accordo con Forza Italia, non può essere l’accordo esclusivo da cui nasce la nuova Costituzione, non può essere la nuova Resistenza, così come Denis Verdini non può essere il nuovo legislatore”.
In questa, che non doveva essere una battaglia, ci sono invece vinti e vincitori. Tra questi certamente Forza Italia. Il capogruppo Paolo Romani può agilmente e tra gli applausi dire che “in fondo al testo di questa riforma c’è la firma di Berlusconi accanto a quella di Renzi”. L’ex Cavaliere diventa quasi un assente per caso. Non perché condannato in via definitiva. Gli applausi riabilitano la decadenza votata il 27 novembre scorso.
Matteo Renzi non è venuto al Senato. Peccato, occasione sprecata, non s’è mai visto in questi giorni. Per evitare la fronda? Qualche fischio? Per non sentire il rosario di “fallimenti” citato punto per punto dal capogruppo Cinque stelle Vito Petrocelli (“governo incapace e arrogante, le vere priorità sono lavoro e imprese”).
Peccato anche perché c’è molto di positivo in questa riforma. E su questo doveva mettere la faccia per rivendicare la rivoluzione di una decisione attesa da trent’anni: fine del bicameralismo perfetto, semplificazione dell’iter delle leggi, diminuzione del ceto politico, taglio delle indennità di 320 senatori. Si poteva arrivare agli stessi risultati, con tempi più certi e minori umiliazioni, seguendo strade diverse.
Una per tutte: riduzione di senatori e deputati, elezione dei senatori insieme con i consiglieri regionali.
La parte buona va certamente salvata nei prossimi passaggi parlamentari (ancora quattro) del disegno di legge costituzionale.
Il resto va cambiato.
Lo farà la Camera dove il ddl sarà incardinato a settembre.
Anche perché il governo Renzi, tra dati economici con il segno meno e warning da Francoforte e Bruxelles, ha esaurito la luna di miele post-europee e probabilmente dovrà abbassare i toni e limare un po’ quelle certezze granitiche che sono state fin qui il marchio di fabbrica del team renziano. Guardare un po’ più al Pd e alle forze nel recinto della maggioranza e un po’ meno a Forza Italia.
La prima cartina di tornasole sarà il tavolo sulla legge elettorale. Il vecchio ma ancora vivo Senato ricomincia da qui. A settembre. L’Italicum sarà modificato. La nuova legge elettorale non sarà pronta prima di primavera. La legislatura, ha giurato il premier, andrà avanti fino al 2018.