La Stampa pubblica un commento di Vittorio Emanuele Parsi sulle prospettive della presidenza Obama intitolato ”Forza liberal”. Lo riportiamo di seguito:
”Già solo per questo,per aver compiuto la promessa del sogno americano, l’elezione di Barak Obama a 44° presidente degli Stati Uniti rappresenta un fatto epocale, che arriva proprio quando l’America aveva più bisogno di tornare a credere in se stessa, nel suo essere «una nazione benedetta dalla Provvidenza». Per quanto possa essere difficile in queste ore riuscire a farlo, dovremmo però provare a mettere da parte l’emozione di vedere il primo Presidente «non bianco» della storia degli Stati Uniti, e andare oltre, per chiederci se l’elezione di Obama non possa rappresentare per l’America di oggi, a posizioni partitiche rovesciate, qualche cosa di analogo a ciò che significò l’elezione di Ronald Reagan per l’America degli Anni Ottanta.
L’arrivo di Reagan alla Casa Bianca segnò l’inizio della cosiddetta rivoluzione conservatrice, quella che fu capace di rimettere in carreggiata un Paese che non credeva più in se stesso, nei suoi miti e nei suoi leader. Grazie a quell’outsider che aveva fede nell’American Dream più di quanta ormai ne avessero le sue stanche e rassegnate élite, gli americani, questo popolo di sognatori, ripresero a lottare e tornarono a ripetersi, allora come in altri momenti cruciali della storia della grande Nazione, «We Can Do It». Ce la possiamo fare a vincere la sfida della Guerra fredda, nella quale l’Urss appariva in clamoroso vantaggio, a far riprendere a correre l’economia americana, di cui i giapponesi stavano acquistando a prezzi di saldo persino i simboli (le grandi major cinematografiche, i grattacieli di Manhattan), a restaurare i valori di una tradizione fatta di responsabilità e libertà , individualismo e senso comunitario, in un mix unico per audacia e generosità . Quella rivoluzione non sarebbe però stata possibile, se il suo alfiere non fosse stato capace di conquistare, non solo per sé ma anche per il suo partito (e qui sta il punto), il centro dello schieramento politico americano, rifacendo del Grand Old Party la «casa naturale» dei moderati, o meglio degli elettori indipendenti, come più correttamente sono definiti da queste parti coloro che non votano in base a pregiudiziali ideologiche.
Da allora fino a martedì scorso, i repubblicani erano riusciti a mantenere questa collocazione privilegiata, nonostante progressivamente, anno dopo anno, il partito fosse scivolato verso posizioni sempre più conservatrici e minoritarie, piuttosto che autenticamente tradizionali e maggioritarie. La tenuta era stata facilitata dal fatto che questo Paese è sempre stato, almeno finora, decisamente e strutturalmente orientato più verso il centrodestra (per dirla all’italiana) che non verso il centrosinistra.
Significativamente, ci volle l’avvento sulla scena politica di un animale politico straordinariamente dotato come Bill Clinton, per riuscire sospendere la rendita elettorale che Reagan aveva fornito al Gop. Ma il southern boy non riuscì mai a trasferire al partito il suo successo, e a trasformare il proprio carisma personale in consensi stabilizzati per i democratici.
Oggi, a Barack Obama si apre concretamente questa possibilità , cioè la chance di far partire una rivoluzione liberal, dopo che quella conservatrice ha esaurito da tempo la sua spinta innovatrice. Non si tratta di cancellare tutto quello fatto in questi anni, ma di raccogliere idealmente il testimone del «cambiamento nella continuità » dalle mani dei migliori interpreti del conservatorismo per affidarlo a quelle dei liberal. È giunta l’ora che la cultura politica liberal degli Stati Uniti torni a giocare un ruolo meno elitario e compiaciuto, a parlare alla working class (alla vecchia come alla nuova) e possa così nuovamente arricchire la vita e il dibattito politico degli Stati Uniti. È questo che gli americani intendono per alternanza, non certo l’infinito fare e disfare cui siamo abituati da queste parti; ma il muoversi verso l’orizzonte alternando «i bordi», sfruttando cioè i venti più efficaci in ogni stagione.
A sua disposizione, il presidente Obama ha una dote elettorale straordinaria fatta dal 54% di consensi degli elettori indipendenti, del 66% di quelli under 29 e dell’enorme numero di latinos portati alle urne. Per paradosso, il voto nero è stato quello meno determinante per la sua vittoria, se si considera che i votanti afroamericani sono passati solo dall’11% del 2004 all’attuale 13%. È un ottimo punto di partenza per fare dei democratici il partito di riferimento degli elettori indipendenti per un lungo periodo di tempo, per ricollocarlo al centro dello schieramento dal quale da troppo tempo si era allontanato. In tal modo, Barack Obama aiuterà anche i repubblicani moderati a vincere la loro dura battaglia interna contro la destra religiosa e conservatrice che, insieme con la crisi economica, è tra i maggiori responsabili della débâcle di McCain.
Per la sua stessa storia personale, e per come ha saputo costruire il suo posizionamento durante le durissime primarie democratiche, Barack Obama, è riuscito a presentarsi come colui che era in grado di incarnare il «cambiamento senza salti nel buio», la freschezza che l’America chiedeva e il ritorno ai valori dell’autentica tradizione americana. È una ricetta che funziona dovunque, basti pensare alla Francia delle ultime presidenziali o all’Italia del 1994: ma mentre è molto facile da descrivere e molto difficile da perseguire. Obama sa, molto più di tanti suoi imitatori, che il lavoro vero inizia adesso, che l’onda che l’ha trascinato fin qui non è molto diversa da quella che portò Jimmy Carter alla Casa Bianca: ma che la disaffezione e lo scontento sono sufficienti per essere eletti, non per governare. Gli americani, disgustati degli scandali Enron, disorientati da due guerre in sette anni, preoccupati dalla crisi finanziaria, hanno concesso al candidato Obama e ai democratici la loro fiducia: tocca al presidente Obama, ora, dimostrare che in tanti avevano visto giusto”.
