Il Partito democratico si è scoperto una vocazione “movimentista” che forse neppure i suoi leader sospettavano. In vista del congresso di ottobre, naturalmente. Infatti, in questi giorni, oltre a prodursi nello sfornare candidature, i democrats, alla ricerca del tempo perduto, stanno producendosi in contorsionismi sorprendenti. Infatti, gli assemblaggi, più o meno innaturali o originali, nelle varie componenti sono frenetici, improvvisi, il più delle volte inspiegabili. Ed il sospetto che siano dettati più dalla necessità del posizionamento di singoli e gruppi che dall’ adesione a programmi effettivamente alternativi è assolutamente legittimo. Comunque, che stia avvenendo un rimescolamento di carte tra i supporter dei tre candidati principali, e soprattutto tra quelli che si riconoscono in Bersani e in Franceschini, è fuori discussione. Ma che esso sia pure l’indizio della costruzione di un programma unitario da far vivere dopo il congresso è difficile crederlo, considerando la distanza delle posizioni che animano i vari gruppi (una volte le avremmo chiamate correnti) all’interno del partito.
Si ha piuttosto l’impressione, almeno in questa fase, che prevalga la logica dell’appartenenza per non rimanere fuori dai giochi. Si capisce poco, a giudicare dalle prime uscite dei pretendenti alla guida del partito, in che cosa il Pd dovrebbe essere diverso da quello che è stato finora. Tanto l’attuale segretario, quanto quello in pectore, infatti, vogliono azzerare la perdente “vocazione maggioritaria” veltroniana che era il solo dato significativo del nuovo soggetto, per allargarsi oltre gli attuali confini, fino a provare a costruire una sorta di Ulivo 2, sognando di coinvolgere nell’operazione anche Casini il quale è troppo scaltro per abboccare all’amo che il Pd generosamente gli fa ballonzolare davanti. Sa bene, il leader dell’Udc, che il suo posto è altrove e se dovesse intrecciarsi con Di Pietro nel supportare una nuova alleanza con il Pd, in un battito di ciglia perderebbe tutto il proprio elettorato che, come si sa, è dal punto di vista “valoriale” molto prossimo al centrodestra, verso il quale non avrebbe problemi ad orientarsi, posto che anche nel Pdl si radichi la consapevolezza che con Casini prima o poi i conti bisognerà farli.
Il Pd, insomma, sta tornando al passato. Ed invece di guardare davanti a sé, si attende che soltanto dal passato possa venire la ricomposizione di una grande sinistra in grado di competere per il dopo-Berlusconi. Perciò il modello a cui si ispira è ancora una volta l’Ulivo prodiano. In questo contesto è riuscito ad assorbire anche Francesco Rutelli tentato, fino a pochi giorni fa, di giocarsi una carta tutta sua, ma le risposte ottenute lo hanno costretto a ripensarci e a scendere in campo al fianco di Franceschini, un catto-comunista che può contare su gente di peso come Marini e Fioroni ed insidiare Bersani il quale viene sponsorizzato da D’Alema, dalla Bindi e da Letta, a conferma che se non l’amalgama quanto meno l’ibridazione è riuscita.
C’è poi la variabile rappresentata da Ignazio Marino il quale vorrebbe un Pd “radicale”, laicista, che non tiene conto dell’elettorato di riferimento e difficilmente i militanti del partito terranno conto di lui. Tuttavia, per quanto esigua, la minoranza che rappresenta, come nelle migliori tradizioni della prima repubblica, potrebbe far convergere i propri voti sull’uno o sull’altro dei protagonisti della contesa.
E questa sarebbe la politica nuova di un partito nuovo? Ci sembra piuttosto la riedizione della balcanizzazione di una formazione politica alla quale tante volte abbiamo assistito. I vecchi ragazzi della Fgci e gli altrettanto attempati ex-giovanotti dell’Azione cattolica se non mettono in campo un progetto condiviso possono anche dire addio alle loro illusioni.
A dire la verità, il Pd è nato male anche dal punto di vista strutturale. Come ha notato anche Mario Pirani su “Repubblica”, non s’è mai visto un segretario di partito che debba rispondere a tre diversi corpi elettorali. Infatti gli iscritti al partito votano nelle sezioni e nei congressi provinciali i candidati alla segreteria; questi passano poi al vaglio della Convenzione nazionale, cioè il Congresso propriamente detto, dalla quale vengono selezionati i primi tre. Dunque la terna dovrà concorrere alle “primarie”, un sistema balordo di selezione al quale potranno partecipare tutti: militanti, iscritti, simpatizzanti, elettori e passanti. Da questo “rigoroso” metodo verrà fuori il segretario la cui nomina infine sarà sanzionata dall’Assemblea nazionale.
Ma non è finita. Chi vorrà concorrere alla guida del partito dovrà depositare entro la fine di luglio la sua candidatura previa la raccolta del 10% della scaduta Assemblea nazionale, dunque priva di legittimazione; oppure dal consenso espresso per iscritto da duemila tesserati distribuiti in almeno cinque regioni ed in tre circoscrizioni elettorali europee. “Un assurdo marchingegno”, ha scritto Pirani, che peraltro nessuno conosce. E che ci fa intendere come e perché invece di dedicarsi al progetto i neo-bizantini del Pd si siano maniacalmente concentrati sulla costruzione di un meccanismo difficile da governare nelle cui pieghe possono insinuarsi tutte le gherminelle possibili ed immaginabili. Altro che trasparenza.
Le idee, in un simile contesto, sono poco meno di anticaglie e perciò non se ne vedono all’orizzonte, vuoi nel verbo di Bersani o in quello di Franceschini che nel “nuovismo” un tantino naif di Marino, per non dire di altri che verranno tanto per guadagnarsi un’effimera citazione cui giornali. Chi sostiene, in perfetta buona fede, che il Pd sta preparando il proprio suicidio non è lontano dal vero. Occorrerebbe un meccanismo di selezione della classe dirigente più snello e meno di apparato; ci sarebbe bisogno che quanto sostenuto dai vari Chiamparino (a proposito: non dice nulla che la sua esclusione dalla corsa alla segreteria sia stata determinata dagli oligarchi?), Penati, Cacciari sul radicamento territoriale del partito venisse tenuto in seria considerazione; che un progetto di rinascita sociale, civile e culturale fosse portato unitariamente all’attenzione del Paese e pubblicamente discusso. Di tutto questo non si vede niente di niente. Sembra che l’allegria dei naufragi abbia contagiato il sempre meno popoloso quartier generale di Largo del Nazareno dove, oltretutto, per non farsi mancare nulla, come al solito dalemiani e veltroniani se le stanno dando di santa ragione, con stile e discrezione, ma se le stanno dando.
Il Pd si è rivelato, oltre ogni pessimistica previsione, un partito di apparato e di nomenclature conflittuali. E, del resto, se per diventare deputato europeo o amministratore locale, ma anche parlamentare nazionale basta una comparsata televisiva, magari segnata dall’irriverenza verso una parte della classe dirigente ecco che l’altra sostiene il “temerario” o la “temeraria” facendoli diventare politici e perfino vagheggiando per loro posizioni di vertice che mai si sarebbero sognati. Un’ordalia continua, insomma, che finirà per far naufragare l’ultima illusione della sinistra. Non sarà un bene né per sistema politico, né per il Paese.