Piccola, grande storia di regime: “Chi lavora per lo Stato non può criticare il governo”

Questa è una storia, piccola ma sincera, di regime. Regime che nessuno impone ma che in molti in Italia si stanno scegliendo da soli, con spontaneo entusiasmo. Sostiene un dirigente dell’Ufficio scolastico regionale dell’Emilia-Romagna, tal Marcello Limina, che «i presidi non devono criticare la politica del ministero». Perché altrimenti non arrivano i fondi, perchè è meglio tenersi buono il ministro? Fosse questa la motivazione, l’Italia quasi tutta la conosce e la pratica. No, la motivazione è altra: «Questione di lealtà nei confronti del datore di lavoro».

Limina non sa, forse la sua cultura non gli consente neanche di sapere, che il datore di lavoro è lo Stato e che lo Stato non coincide con la persona del ministro. La democrazia, quella occidentale e liberale, parte da qui, da questa distinzione. Ma Limina non deve averlo mai studiato quando era studente al ginnasio, al liceo è nozione che si dà per assodata. Infatti qualunque riassunto di storia riporta che la monarchia per diritto divino finì e cedette il passo alla democrazia elettiva quando non fu più possibile a nessuno dire: «Lo Stato sono io».

L’argomento di Limina è poi risolutivo, della democrazia. Se i dipendenti della scuola non possono criticare il ministro, altrettanto varrà per i dipendenti dei Trasporti, della Sanità, insomma per tutti i dipendenti pubblici. Quindi se ne deduce che chi prende uno stipendio dallo Stato deve consegnare al governo, che non è la stessa cosa, la sua fedeltà e il suo silenzio. Fedeltà politica e silenzio politico. Sempre la storia insegna senza eccezioni che sono i regimi a chiedere questo tipo di fedeltà. Quando lo fece il fascismo l’Italia non ebbe grandi problemi: tra centinaia di migliaia di insegnanti e professori universitari a non giurare fedeltà furono un paio di decine. Stavolta c’è qualche problema in più: Daniela Turci, la preside cui Limina imputa «disonestà contrattuale», aveva detto di non condividere la riforma Gelmini. E qualcuno in Italia ritiene sia ancora un diritto farlo, qualcuno ancora più di un paio di decine. Ma la voglia di regime avanza e si diffonde.

In Rai hanno rifiutato di mandare in onda il promo, a pagamento, del film Videocracy. La Rai ha messo nero su bianco il perché del suo no: il film parla di politica. Tanto tempo fa era appeso nei negozi e negli uffici un cartello che diceva e ammoniva: «Qui non si parla di politica». Cartello che sta tornando di moda. Una moda vintage ma non tanto.

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Mino Fuccillo