Limina non sa, forse la sua cultura non gli consente neanche di sapere, che il datore di lavoro è lo Stato e che lo Stato non coincide con la persona del ministro. La democrazia, quella occidentale e liberale, parte da qui, da questa distinzione. Ma Limina non deve averlo mai studiato quando era studente al ginnasio, al liceo è nozione che si dà per assodata. Infatti qualunque riassunto di storia riporta che la monarchia per diritto divino finì e cedette il passo alla democrazia elettiva quando non fu più possibile a nessuno dire: «Lo Stato sono io».
L’argomento di Limina è poi risolutivo, della democrazia. Se i dipendenti della scuola non possono criticare il ministro, altrettanto varrà per i dipendenti dei Trasporti, della Sanità, insomma per tutti i dipendenti pubblici. Quindi se ne deduce che chi prende uno stipendio dallo Stato deve consegnare al governo, che non è la stessa cosa, la sua fedeltà e il suo silenzio. Fedeltà politica e silenzio politico. Sempre la storia insegna senza eccezioni che sono i regimi a chiedere questo tipo di fedeltà. Quando lo fece il fascismo l’Italia non ebbe grandi problemi: tra centinaia di migliaia di insegnanti e professori universitari a non giurare fedeltà furono un paio di decine. Stavolta c’è qualche problema in più: Daniela Turci, la preside cui Limina imputa «disonestà contrattuale», aveva detto di non condividere la riforma Gelmini. E qualcuno in Italia ritiene sia ancora un diritto farlo, qualcuno ancora più di un paio di decine. Ma la voglia di regime avanza e si diffonde.
In Rai hanno rifiutato di mandare in onda il promo, a pagamento, del film Videocracy. La Rai ha messo nero su bianco il perché del suo no: il film parla di politica. Tanto tempo fa era appeso nei negozi e negli uffici un cartello che diceva e ammoniva: «Qui non si parla di politica». Cartello che sta tornando di moda. Una moda vintage ma non tanto.