Come più o meno direbbero i Gialappa’s, chi non ha provato un po’ di tristezza, cambi canale. Si sintonizzi altrove, fuori dal palinsesto, cioè dalle trasmissioni e dalla trasmissione delle buone emozioni. E’ una “buona” emozione essere almeno un po’ tristi perchè Shumacher non ce la fa, perchè Schumacher non torna. E attenzione: qui non si parla di sport che è solo il fondale della vicenda. Te ne puoi fregare della Ferrari e della Formula Uno, ma Schumacher che si arrende è una sconfitta per i piccoli e grandi sogni di ogni piccolo e grande onest’uomo.
Schumacher che dopo tre anni, a 40 anni suonati, reindossava tuta e casco, si infilava in macchina e, hai visto mai, tornava se non a vincere a fare ottima figura, era la metafora incarnata. Era il pensiero che si faceva di carne e di ossa. Il pensiero che piace pensare a tutti noi, il pensiero che un’altra chanche è possibile, che si può tornare indietro, che dentro di noi l’adolescente, il giovane che è stato una volta, in fondo c’è ancora. Basta volerlo ritirare fuori e lui risponde all’appello. Ci piace pensarlo, ci consola e ci aiuta pensarlo, di ciascuno di noi. Ci intenerisce il vivere l’idea, solo l’idea, che la Formula Uno del tempo abbia la retromarcia, che qualcosa si conservi intatto al di là della pista che, più o meno per caso, la nostra esistenza ha imboccato e percorre, a velocità più o meno sostenuta, nel tempo presente. Schumacher che tornava era questo, altro che un pilota famoso chiamato a sostituire un collega ferito.
Avevamo tutti voglia di assistere non allo show di un Gran Premio con lui di nuovo alla guida. Quel che ci preparavamo a vedere era la prova provata che la volontà, la professionalità, l’abilità possono rinverdire un mito biblico che nessuno ricorda ma che invece è depositato nel fondo dell’anima umana. Racconta la Bibbia che un condottiero fermò il corso del sole per avere il tempo di luce necessario a completare la sua vittoria in battaglia. Vittoria contro qualche esercito di migliaia di anni fa, ma in realtà vittoria contro il tempo che ci modifica e ci consuma. Istintivamente anche se non coscientemente lo sapevamo tutti cosa era il ritorno di Schumacher: uno schiaffone al tempo e un dispetto alla morte che del tempo che scorre è compagna ed esito. Per cui essere tristi alla notizia che ritorno non sarà è cosa tenera, umana, giusta.
Dicono le cronache siano stati i muscoli del collo. Sarà…Lo sappiamo chi è stato davvero. Abbiamo molti modi per chiamarlo. Destino, natura, disegno…In ogni caso qualcosa che è più forte dell’umano. Qualcosa di cui riconosciamo il potere, cui tributiamo omaggio e devozione. Ma anche qualcosa che da millenni amiamo sfidare almeno per interposti “eroi”. Ci avevano promesso che si poteva fare. Un’altra volta, come nell’Iliade e l’Odissea, come quando Prometeo rubò il fuoco agli dei, come quando ciascuno di noi pensa con un colpo di reni si possa raddrizzare una vita che si è fatta curva se non addirittura storta. Eravamo in poltrona, pronti ad assistere. In tribuna, pronti a tifare. Ci hanno sloggiato, quelle mitologiche signore che snodano inerosabili i fili del tempo hanno detto che di riaggomitolarlo non hanno voglia, neanche per una breve fiaba moderna. Un po’ di tristezza è d’obbligo. Ma, come più o meno canterebbe Lucio Dalla, la tv annuncia che “è tre volte Natale”, che chi sconfigge il tempo in Italia c’è, che tutto si può fare e si fa, che “l’eroe” è vivo e governa insieme a noi. E la tristezza, sia pure di un giorno, aumenta: la fiaba svanisce, la favola ingrossa