Imbrattato il muro di cinta della Sisport, destinatario dei murales più avvelenati è stato il presidente Cairo definito «buffone e banfone». Il resto potrà arrivargli via telefono, visto che è stato scritto pure il numero del suo cellulare. Poi l’allenamento con la colonna sonora di «vergognatevi», «Barone vai in pensione», «andate tutti a Palermo».
Ad avere la peggio è stato Rubin dopo l’intervista in cui ammetteva il desiderio di seguire Dzemaili in Sicilia. Colantuono ha parlottato con i tifosi più vicini alla ringhiera, poi ha diretto come ha potuto. Poi dopo la contestazione cinque agenti in divisa e i funzionari della Digos hanno controllato il deflusso del popolo che mescolava ultrà a nonne e bambini.
Prima la retrocessione, poi il crollo del fatturato, il mercato che non decolla e il rischio di non tornare subito in A. Un insieme di cose che possono mettere a dura prova anche la resistenza del presidente Cairo, il quale è stato chiaro: «Ho cominciato quattro anni fa quando sapevo poco di calcio e avevo tanto entusiasmo. Ho cercato di imparare il mestiere, commettendo anche errori spesso per troppo amore. Io continuo a fare quello che posso in relazione alle mie possibilità che non sono illimitate. Il calcio è cambiato, non sono abbastanza ricco da poter fare grossi acquisti. Non sono nè uno sceicco, nè un petroliere russo. Il Toro non è mio per l’eternità, se qualcuno è più forte e bravo di me non mi opporrò, si presenti chi vuole».
Cairo poi aggiunge delle punte di amarezza: «Dire non mollo, non vuol dire diventare un peso per il Toro. La serie B costa molto, nonostante la cessione di Rosina, siamo sotto di 14,5 milioni. E’ il mercato più difficile degli ultimi vent’anni, ma il gruppo verrà modificato ancora. Ci saranno entrate e uscite. Foschi ha le risorse per operare come deve».