Copenhagen nuova Babele moderna, dove si incontrano persone, si parlano le lingue di tutto il mondo ma il risultato finale non è un discorso corale. Piuttosto un nulla di fatto. Con i no global che ancora oggi tentano di bloccare i lavori del vertice sul clima. Con i lavori del summit che sono praticamente bloccati sotto la scure delle incomprensioni tra i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Insomma no global, no lavori, no risoluzione internazionale.
Oggi si è addirittura dimessa la presidente del vertice climatico, Connie Hedegaard, apertamente criticata nei giorni scorsi dalle delegazioni africane. A tre giorni dalla sua chiusura, quello che avrebbe dovuto essere il «negoziato internazionale più importante dal dopoguerra», dunque, ha tutte le sembianze di un buco nell’acqua.
Ancora oggi i No Global e i movimenti ambientalisti sono scesi di nuovo in piazza e hanno tentato di marciare verso il Bella Center, il centro-congressi teatro del summit: migliaia di manifestanti hanno assaltato la “zona rossa” con l’intenzione di entrare nella sede del vertice e sono stati caricati dalla polizia. Cinque i cortei organizzati, nessuno riesce a raggiungere l’ingresso del Bella Center, obiettivo dichiarato dei manifestanti. Ancora una volta il pugno di ferro della polizia danese zittisce la protesta: altri 256 finiscono nel centro di detenzione provvisorio. Il totale, dall’inizio dei disordini, si attesta intorno ai 1.600. Anche oggi alcuni italiani sono tra i fermati: tre, secondo quanto riferito dalla polizia. Per uno di loro è scattata l’incriminazione.
Intanto, all’interno del palazzo dove si sta tenendo il vertice, i lavori sono bloccati. Nel giorno dei grandi nomi, parlano i leader mondiali: Gordon Brown, Barack Obama, Chavez, Mugabe. Ma la loro presenza rischia di essere solo una bella passerella e nient’altro. I nodi sul tavolo, infatti, sembrano non sciogliersi e rischiano di condannare il vertice climatico di Copenaghen ad un flop.
Basti pensare che, martedì notte, le consultazioni sono andate avanti fino alle quattro del mattino e si sono concluse con un nulla di fatto. Il punto su cui il summit di fatto si è bloccato è stabilire in che misura la frenata nelle emissioni di gas serra va distribuita tra i vari paesi. Fin qui, anche se tra molte difficoltà, si è stabilito il tetto massimo dell’inquinamento da non superare (450 parti per milione di concentrazione di anidride carbonica in atmosfera). Ora però il problema è stabilire chi ha “sforato” di più.
Ad esempio: se si misura con il metro degli Stati Pechino ha scavalcato Washington, ma se se si applica il conteggio pro capite ci vogliono 4 cinesi per arrivare alle emissioni di un cittadino degli States. E anche la seconda domanda porta a una opposizione radicale. Se si tiene conto, come chiedono Cina e India, delle responsabilità storiche si scopre che il 75% dei gas serra oggi in atmosfera viene dai paesi industrializzati. Ma, se si guarda a ciò che avviene oggi, si trova un quadro che tra pochi anni diventerà esattamente speculare. L’accordo è necessario perché lo stop ai gas che scaldano il pianeta non può che essere globale.
Ma a Copenhagen ci sono posizioni assai contrastanti. Con l’Europa che da anni si batte per la ratifica del protocollo di Kyoto; Stati Uniti e Cina che da grandi inquinatori entrano solo ora nella trattativa; con i paesi africani che subiranno i maggiori danni e che chiedono più rigore per il futuro.
Sullo sfondo il duello a distanza tra Cina e Stati Uniti. Da un lato, gli Usa ritengono che la bozza di accordo stilata da Pechino sia squilibrata a vantaggio dei Paesi in via di sviluppo. I cinesi, dal canto loro, non vogliono assumersi la responsabilità di un eventuale fallimento.