Sono circa un centinaio, ogni anno, i cetacei che si arenano sulle coste italiane. Delfini, capodogli o balenottere che si spiaggiano, spesso agonizzanti, e il più delle volte non riescono a sopravvivere. A minacciare la salute di questi animali sono soprattutto i comportamenti umani: dall’inquinamento dei nostri mari, fino alle onde emesse dalle apparecchiature ‘sonar’ delle navi.
Al tema è dedicato una giornata di studi, in programma venerdì presso la Facoltà di Medicina Veterinaria dell’Università di Teramo, alla quale parteciperanno alcuni tra i più qualificati esperti in materia di gestione sanitaria e di patologia dei cetacei. “Gli spiaggiamenti rappresentano, pur nella loro drammaticità e soprattutto quando vi sono coinvolti più animali, un’occasione più unica che rara per conoscerne e monitorarne lo stato di salute e, con esso, anche quello dei nostri mari.
Per quanto già di per sè cospicuo, il numero delle ‘minacce’ cui si trovano esposti i cetacei a livello planetario e, più in particolare, nel Mediterraneo, ha registrato in questi ultimi anni una preoccupante escalation”, spiega Giovanni Di Guardo, docente di Patologia generale e fisiopatologia veterinaria dell’ateneo teramano, e responsabile scientifico di un progetto di ricerca nazionale finanziato dal Ministero dell’Ambiente.
Sul banco degli imputati proprio l’uomo e i suoi comportamenti dannosi per la salute del mare e dei suoi ‘abitanti’. “Le cosiddette ‘noxae antropologiche’, ovvero le minacce legate alle molteplici attività umane – spiega Di Guardo – stanno assumendo una crescente rilevanza”. Responsabili degli spiaggiamenti dunque “cause fisiche quali le onde a media frequenza rilasciate da apparecchiature ‘sonar’, nonchè collisioni con natanti e l’impigliamento in reti e attrezzature da pesca, ma anche agenti chimici quali i metalli pesanti e altri contaminanti ambientali persistenti, come gli organoclorurati e i cosiddetti ritardanti di fiamma”.
A queste cause “si aggiungono altre di origine ‘naturale’, primi fra tutti i morbillivirus, agenti biologici che nel corso degli ultimi 20 anni hanno provocato una decina di gravi epidemie in più specie e popolazioni di mammiferi acquatici, sia Pinnipedi che Cetacei, in svariate zone del Pianeta”.