ROMA – Osservando l’immagine di una raffineria di petrolio colpiscono le grandi fiammi emesse dal pozzo, che giorno e notte illuminano i cieli quasi quanto le luci della città . queste alte fiamme sono i “flare gas” e rappresentano lo spreco di 150 miliardi di metri cubi di metano ogni anno, perché il metano così bruciato nella maggior parte dei casi non viene recuperato, ma ha l’unica funzione di immettere gas serra nell’atmosfera.
Lo spreco di questo gas è enormi, così come enormi sono i danni a livello economico e ambientale: la quantità di gas che ogni anno finisce nei flare equivale alla quantità di metano consumato in un anno da due paesi grandi quanto l’Italia, il cui consumo medio di gas è stimato attorno agli 80 miliardi di metri cubi all’anno. I flare gas presentano anche un forte impatto ambientale, se si pensa che bruciando nell’aria il 5 per cento del metano estratto in un anno si immettono nell’atmosfera le stesse quantità di anidride carbonica prodotta da 77 milioni di vetture di media cilindrata.
Questo metano “di scarto” che proviene dal sottosuolo, dove soggetto a forti pressioni è mescolato al petrolio in una poltiglia idrocarburica liquida composta anche da altri gas come butano e propano, nelle profondità del terreno è allo stato liquido, ma quando si avvicina alla superficie e la pressione diminuisce il metano torna allo stato gassoso e, se l’impianto non è attrezzato al raccoglimento dello ‘scarto’,  fuoriesce nell’atmosfera, dove deve essere bruciato affinché non saturi la’rea intorno al pozzo, evitando così il rischio di esplosioni non controllate che distruggerebbero la struttura.
Uno spreco, quello del metano trattato come gas di scarto, che sarebbe facilmente evitabile se le tecnologie esistenti per il suo riciclaggio fossero utilizzate: il gas potrebbe essere utilizzato per produrre elettricità , incanalato nelle condutture dei metanodotti o liquefatto e trasportato in mercati lontani con navi-cisterna. Potrebbe anche essere reimmesso nei pozzi petroliferi, per tenere alta la pressione della miscela di gas e petrolio e favorire così l’estrazione di quest’ultimo.
Solo ora che un rapporto della General Electric, multinazionale che costruisce apparati industriali per le energie, ha stimato la possibilità di ricavare dai flare gas 20 miliardi di dollari all’anno, attraverso investimenti mirati ad una modernizzazione dell’impianto, i produttori di petrolio di tutto il mondo sembrano essersi dimostrati sensibili al fenomeno, anche se l’adeguamento degli impianti richiederebbe circa 10 anni di lavoro. Più ottimista Michael Farina, program manager di Ge Energy e autore dello studio, il quale ritiene che “con un’adeguata accelerazione degli investimenti si potrebbe attrezzare tutto il mondo al recupero del “flare gas” in meno di cinque anni”.
Se i produttori di petrolio investissero le proprie risorse nell’adeguamento degli impianti, la cui tecnologia andrebbe scelta in funzione delle caratteristiche della zona in cui l’impianto è situato, insomma se le infrastrutture fossero adatte si avrebbero benefici non solo economici, con il recupero di miliardi di dollari e l’impiego utile del gas bruciato, ma anche ambientali, con una notevole riduzione delle emissioni di anidride carbonica, se si considera che le quantità di gas serra prodotte in un anno solo dai “flare gas” vanificano ogni sforzo della popolazione di abbattere le emissioni quotidianamente nelle città .
