Il 23 novembre 1980 un terremoto devastante dilaniò l’Irpinia: il bilancio drammatico fu di 2914 morti e 280 mila senza tetto. A distanza di 30 anni, poco o nulla è cambiato in quel lembo di Campania compreso tra le province di Avellino, Benevento e Salerno. Le promesse delle istituzioni non sempre sono state mantenute e tanti di quei terremotati sono ancora costretti a vivere nell’emergenza e nella provvisorietà. Irpinia come L’Aquila, un filo che lega i terremotati “di ieri” a quelli di “oggi”.
Un reportage pubblicato dal settimanale Left ha raccontato in quali situazione sono costretti a vivere ancora gli abitanti delle zone colpite dal sisma. La ricostruzione in molti casi è stata solo “parziale”, anche se i soldi pubblici usati non sono stati pochi: “Oltre 60 mila miliardi di vecchie lire, pari a oltre 32 miliardi e 636 milioni di euro. Una ricostruzione ancora in corso – l’ultimo contributo quindicinale da 157 milioni e 500 mila euro è stato stanziato con la Finanziaria 2007”. Costi che furono di gran lunga inferiori ai finanziamenti stanziati per gli aquilani: “Nel primo anno in Irpinia lo Stato spese 7.889 euro per ogni sfollato, contro i 23.718 euro sborsati per ciascun senzatetto abruzzese nello stesso arco di tempo”.
Ma il “pozzo senza fondo” degli aiuti diventò spesso per gli amministratori locali un “boccone ghiotto” per speculare: Tra appalti e subappalti, imprevisti geologici e varianti adottate in corso d’opera, i costi delle infrastrutture, e soprattutto della rete viaria, negli anni sono aumentati all’inverosimile. L’esempio più clamoroso è quello della superstrada Fondovalle Sele, costata ben 25 miliardi di lire al chilometro e terminata circa 20 anni dopo il sima. I tempi di realizzazione delle infrastrutture, infatti, sono stati biblici: basti pensare che a fine 2010 un’arteria come la Nerico-Muro Lucano, costata ad oggi più di 300 miliardi di vecchie lire, invece dei 26 previsti, non è ancora stata terminata. «Alcuni tratti sono tutt’ora in fase di progettazione – spiega il sindaco di Muro Lucano (Pz), Gerardo Mariani – e questi ritardi causano una continua lievitazione della spesa». Il danno per il Comune, secondo Mariani, è enorme: «Lo svincolo per Muro Lucano, ad oggi, non esiste e l’isolamento ha escluso il paese da ogni possibile piano di sviluppo: non solo industriale o commerciale, ma anche turistico».
Nell’articolo pubblicato su Left è stata fatta una ricognizione della situazione attuale nei singoli paesi devastati dal terremoto.
Romagnano al Monte (Salerno)
“Irrimediabilmente danneggiato dal terremoto dell’’80, il paese è stato ricostruito a 2 km di distanza, perdendo i connotati che lo rendevano familiare ai suoi abitanti. Quasi tutto, nel vecchio borgo, è rimasto fermo alle 19.34 di quel 23 novembre, prima che la scossa da 6,9 gradi della scala Richter scuotesse la terra. Attraverso gli squarci che si sono aperti nei muri delle case, si scorgono i segni delle vite interrotte, tra le macerie che hanno sepolto uomini e oggetti.
Da qui se ne sono andati tutti, trapiantati nel nuovo paese che non ha né un barbiere né un bar. Tutti tranne la famiglia Catena-Brunner, che abita una villetta appena sotto il borgo. Alcuni li chiamano “i guardiani della città fantasma”, coraggiose vedette che hanno resistito aggrappandosi con le unghie al monte, come la vecchia Romagnano”.
Apice Vecchia (Benevento)
“Un abitato fondato ai tempi dell’Antica Roma, con uno splendido castello dell’VIII secolo, su cui le calamità naturali si sono abbattute senza sosta. Reduce dal terremoto del 1930, fu gravemente danneggiato dal sisma del 1962, tanto che i tecnici del ministero dei Lavori Pubblici ne ordinarono l’evacuazione. A dare il colpo di grazia alle casupole in pietra fu però il sisma dell’’80, che obbligò anche gli ultimi “irriducibili” a trasferirsi nella new-town costruita a qualche chilometro di distanza. Da allora poco è cambiato tra questi vicoli rimasti fermi ai primi anni Sessanta. La natura si è presa una rivincita sull’uomo, riappropriandosi degli spazi che il paese le aveva strappato da secoli. Oggi, le piante si insinuano fra le travi divelte dei tetti, occupano le cucine e lambiscono gli oggetti dimenticati tra le macerie.
Nel 2005, la provincia di Benevento, il Comune di Apice e l’Università Iuav di Venezia elaborarono un piano per il recupero del paese vecchio che avrebbe dovuto trasformarsi in “una Pompei del ‘900”. Un museo a cielo aperto sulla vita quotidiana nella provincia italiana del dopoguerra, che oggi però non ha ancora visto la luce. «Lo Iuav ha completato le rilevazioni sullo stato di fatto, dalla Provincia è arrivato un finanziamento di 700 mila euro per rilastricare alcune strade e mettere in sicurezza qualche edificio ma poi tutto si è fermato – spiega Pasquale Albanese, assessore ai Lavori Pubblici di Apice – Ora il Comune è in cerca di altri finanziamenti, vogliamo suddividere il centro in lotti e recuperarlo, ma ci vorrà molto tempo»”.
Angri (Salerno)
“Restano almeno una cinquantina di famiglie nei prefabbricati fatiscenti di Fondo Caiazzo e di via Taverna del Passo. Una favela dove le storie dei terremotati (o dei loro figli, che hanno “ereditato” le strutture) si intrecciano a quelle dei moltissimi abusivi che hanno occupato i prefabbricati abbandonati, aspettando di ottenere gli alloggi popolari. Alcuni sono stati completati, altri sono in costruzione dagli anni ‘90”.
“Nell’attesa si vive nel degrado, un po’ per inerzia un po’ per disperazione, riparati da tetti d’amianto ormai lesionati che, quando tira il vento, spargono le loro polveri ovunque. A ridosso dei prefabbricati, i bambini giocano nella discarica a cielo aperto, dove fino a un paio di anni fa c’era una scuola, tra “monnezza”, pneumatici, materassi, vecchie carcasse di auto e motorini. E amianto. Amianto dappertutto”.
Palomonte (Salerno)
“Una quindicina di famiglie che vivono nei prefabbricati di lamiera ai piedi del centro. «Abito qui da 30 anni, ci ho cresciuto i miei due figli – racconta Carmine Perrotta, che in queste settimane sta ultimando la sua nuova abitazione – È stato difficile resistere così a lungo: le strutture dovevano durare solo 10 anni, per sopravvivere abbiamo dovuto rifare i pavimenti e isolarle come possibile, perché d’inverno si gelava e d’estate le lamiere diventavano un forno»”.
“Intorno a lui, il paese è cambiato. Se alcuni edifici sono stati recuperati attraverso un lungo restauro conservativo, lo stradone che serpeggia nel vuoto appoggiato su ciclopici piloni di cemento ha sfigurato il profilo della montagna. Raccontando come il sogno di riscatto di queste terre si sia spesso tradotto in piani urbani, infrastrutture e grandi opere sovradimensionate rispetto alle reali esigenze del territorio”.
Bisaccia (Avellino)
Il bellissimo borgo di origine medioevale era stato appena sfiorato dal sisma, ma il sindaco Salverino De Vito, che all’epoca era anche Ministro per il Mezzogiorno, riuscì ugualmente a farlo inserire in prima fascia e “regalò” così ai suoi concittadini un paese nuovo, proprio vicino al vecchio. Una new town progettata dall’architetto Aldo Loris Rossi, con una mastodontica chiesa in cemento più simile a un’astronave che a un luogo di culto. «La mia casa non era stata danneggiata, ma mi dissero che siccome quelle vicine potevano essere pericolanti, l’avrebbero demolita comunque – racconta Maria Castelluccio, che gestisce l’unico hotel di Bisaccia “nuova”, dove vive e lavora – Spostandoci qui hanno lasciato morire il centro storico, ma noi non l’abbiamo abbandonato e ci andiamo ogni giorno: gli anziani per la chiesa, i giovani per “lo struscio”. Quei pochi giovani che restano, intendo, perché qua non c’è lavoro e i ragazzi se ne vanno tutti al Nord».