Una delle illusioni in cui noi italiani ci culliamo è che siamo simpatici a tutti nel mondo. Certo, ci piace fare i pagliacci quando siamo all’estero, pensiamo sia un modo per piacere agli stranieri e quelli ridono, che altro possono fare? Ma ridere per uno o di uno non vuol dire ammirarlo amarlo, meno che mai rispettarlo. Vuol dire solo che ti fa ridere.
Allora, tanto per la cronaca: leggete su Blitz con che disprezzo parlano di noi quelli di Mtv, che a loro volta danno voce a quel che dicono e pensano gli altri gruppi etnici, che poi sarebbe razze ma non si può più dire. Ci chiamano “guidos”, no, non per Bertolaso, non è ancora così famoso. Ci ha fatto certo una bella fama insultando il mondo intero e gli americani in particolare sugli aiuti ad Haiti. Ma non è ancora così famoso, e difficilmente lo sarà, da assurgere a epiteto globale contro gli italiani.
Guido vuole dire quelli che tutti tronfi guidano la macchina nuova, frutto di lavoro e sacrifici, non c’è dubbio, ma anche esibita con quell’ingenuo compiacimento di tutti gli ex poveri che hanno appena messo le mani su qualcosa che prima gli era proibito.
Guido non è un epiteto recente. L’ho sentito la prima volta nel film “Enemy of the State” (Nemico pubblico), del 1998, in cui agenti dell’Fbi intercettano dei criminali itali-americani e, riferendosi alla gloriosa italica stirpe, ci chiamano appunto “guidos”.
Vero è che in passato ci andava ancor peggio. In Inghilterra e colonie ci chiamavano e ci chiamano “wog”, che, spiega wikipedia, è “una parola slang offensiva riferita a gente scura di pelle, non bianca, dall’Africa o dall’Asia”. Così, bontà loro, l’hanno esteso anche a noi.
Per convincervi, leggete quell che scrive Giuseppe Catozzella sul sito “Nazione indiana”: “Sono nato a Sydney, nella casa di Myrtle Street al 19, e ci ho vissuto tutta la vita, e questa è una cosa che tengo sempre a sottolineare. Mi sento australiano, ma essendo i miei genitori figli di emigranti italiani e continuando a litigare in un dialetto che io non ho mai capito se non a schiaffi, il mio habitat naturale non poteva che essere Leichhardt, il quartiere italiano. Gli italiani, in Australia, insieme ai greci, ai turchi e ai libanesi sono chiamati wog, un termine spregiativo con cui i discendenti inglesi si divertono a sfotterci. Io ho dunque, per natura, l’anima del wog”.
Marco Benedetto