“E veniamo all’oggetto della nostra lunga, e per certi versi drammatica, trattativa. Una precisazione è necessaria: la direzione non è, come è stato affermato in infelici comunicati, sullo stesso piano dell’azienda o addirittura al di sotto. Non siamo una dependance della direzione del personale. Non serviamo alcun interesse che non sia quello del Corriere. Io e Fontana, che qui ringrazio per la sua opera così preziosa, e mi piacerebbe che lo ringraziaste anche voi, non siamo gli strumenti di nessuno. Non perseguiamo alcun disegno di potere. Se nelle nostre redazioni producessimo notizie e inchieste allo stesso ritmo con il quale diamo corpo a voci e presunti complotti, saremmo un’imbattibile fabbrica giornalistica. La direzione di questo giornale avrà molti difetti, ma non è al servizio di nessuno, tantomeno di un azionariato vario e composito come il nostro, per non dire altro. Se lo fosse stata, come altre direzioni che non hanno avuto il coraggio di opporsi alla cassa integrazione senza peraltro subire un giorno di sciopero, non avreste avuto un accordo sullo stato di crisi così vantaggioso e rispettoso delle individualità. Gli esuberi sarebbero stati 90 e non 47, e alcune redazioni oggi, semplicemente, non esisterebbero più.
“La trattativa dello scorso anno, per la quale non finirò mai di ringraziare il Comitato di redazione, che in quella occasione diede prova di serietà e lungimiranza, affermò, unico caso in Italia, il criterio della volontarietà. Avrei dovuto anch’io firmare la cassa integrazione per dimostrarvi che un mondo era drammaticamente cambiato, e in fretta? No, sono ancora convinto di aver fatto bene, diversamente da quello che pensava l’azienda, a fidarmi del vostro senso di responsabilità, contando sul fatto che siate coscienti dello straordinario salto di paradigma professionale che abbiamo sotto gli occhi.
“Nulla sarà più come prima. Le opportunità del cambiamento tecnologico dell’informazione sono superiori ai rischi. Ma solo se saremo protagonisti convinti, non inseguitori riluttanti. Solo se avremo il coraggio, persino temerario, di percorrere nuove strade, darci regole diverse. Non se ci chiuderemo, scettici e sprezzanti verso il nuovo, nella bambagia dei nostri privilegi. Solo se apriremo ai giovani (al Corriere sotto i 30 anni ne abbiamo soltanto quattro, di cui due contratti a termine, l’1,2 per cento), non se inseguiremo le paure e le bizze degli anziani, tra i quali mi ci metto anch’io. Chi avrà talento, qualità, e innovazione vincerà. Chi si chiuderà su se stesso sarà condannato al declino. Il mondo delle nuove tecnologie dell’informazione è piatto, non vi è più alcuna riserva protetta, ma molte terre incognite da conquistare. E gli esploratori sono quelli che si muovono, con coraggio, non quelli che stanno fermi, impigriti e paurosi. La nostra organizzazione del lavoro è come una carta geografica dell’inizio del XV secolo, va rapidamente aggiornata. E non si possono aspettare mesi e mesi di estenuanti trattative per dar vita a progetti che altri varano in poche giorni. Nel tempo infinito di questa trattativa le versioni sull’iPad del Corriere della Sera, primo per applicazioni acquistate nella stampa italiana, sono già sei. Noi trattiamo con tempi ottocenteschi, gli altri corrono. Gli altri vedono nella mobilità un valore, noi una minaccia. Perché? Una volta esistevano mercati protetti dell’informazione, con barriere politiche, economiche, geografiche e linguistiche. Oggi c’è la Rete, che non aspetta nessuno. E giudica tutti. Senza appello. Il successo di Corriere.it e di Corriere Tv, la prima web tv italiana testimonia del valore e dell’impegno di chi ci lavora, ma anche della necessità che tutti ci lavorino.
“Fino a pochi anni fa, era possibile varare progetti di sviluppo con più risorse, più pagine. Oggi non più. Oggi ci troviamo nella scomoda condizione di dover innovare risparmiando. L’efficienza non è un regalo al padrone ma l’assicurazione sul futuro del nostro lavoro. La competitività non è un’astrazione capitalistica, è una feroce questione di vita e di morte. Non possiamo essere credibili nel rimproverare agli altri la scarsa efficienza e la modesta competitività, quando noi non pratichiamo né l’una né l’altra. Qualcuno di voi obietterà: perché dobbiamo farlo, il Corriere fortunatamente guadagna, e bene, perché dobbiamo pagare noi gli errori negli investimenti esteri dell’azienda? Io se fossi in voi diffiderei di un editore che non vuole distribuire dividendi. Per due motivi: chi non remunera il capitale pregiudica il futuro della propria azienda, perché nessuno vi vorrà più investire, dunque mette a repentaglio i nostri posti di lavoro. In un’azienda che non guadagna e non investe l’occupazione è ogni giorno meno sicura. E avrei timore di qualcuno che volesse investire nell’editoria senza volerci guadagnare. Perché probabilmente farebbe profitti di altra natura vendendosi pezzi di libertà e di indipendenza. Qualcuno ci provò trent’anni fa e non ci riuscì per una sola ragione: perché fu straordinario lo spirito di attaccamento a questa istituzione dimostrato da giornalisti, operai, impiegati. Io c’ero e ne sono orgoglioso.
“Un giornale sano ed efficiente difende meglio la qualità, risponde alle esigenze dei lettori, toglie gli alibi a non investire nei talenti e nelle tecnologie ad amministratori troppo piegati su logiche di redditività a breve o troppo inclini a tagliare con miopia i costi senza innovare. A differenza di un tempo, dobbiamo essere, cari colleghi, anche un po’ editori di noi stessi: costringere l’azienda a fare fino in fondo il proprio mestiere e impedire che le iniziative multimediali vedano i giornalisti in un ruolo residuale con la scusa che costano troppo o hanno un contratto con regole antiquate e poco flessibili. Diciamo no a chi vuole lasciarci fuori dal mercato dell’informazione del futuro.