“Esiste risarcimento per sette anni di gogna?”: Ubaldo Casotto sul Riformista

Le notizie su inchieste su vicende di pedofilia scatenano le pulsioni peggiori del nostro Paese: un corto circuito fatto di isteria, processi mediatici, giornalismo superficiale. Lo descrive bene un impietoso affondo di Ubaldo Casotto sul Riformista:

Un accusato di pedofilia diventa un reietto statim et immediate. L’esposizione mediatica dell’accusa e il conseguente rovistio nella sua vita privata lo escludono immediatamente da ogni consesso sociale di presentabilità. Ed è qui forse la vera responsabilità, oltre a quella dei pubblici ministeri che hanno avviato le indagini e hanno pervicacemente sostenuto l’accusa sino in Cassazione a dispetto di due sentenze di assoluzione. (Libero convincimento si dice, libero nel senso della possibilità di essere attuato, forse non libero da preconcetti e pregiudizi che hanno resistito sino all’ultima definitiva sentenza.)

Alla genesi e alla diffusione di questa psicosi collettiva e di questo contagio emotivo noi giornalisti non siamo estranei. Sto proponendo un’autocensura in nome della “notizia” e della formale applicazione della deontologia professionale. Non sposo in toto la provocazione di Karl Kraus – «Censura e giornale, come potrei non decidermi a favore della prima? La censura può sopprimere la verità per un certo tempo, togliendole la parola. Il giornale sopprime costantemente la verità, in quanto le dà delle parole. La censura non danneggia né la verità né la parola; il giornale entrambe» – ma penso valga la pena prenderla in considerazione, in nome del rispetto di quella verità fattuale di cui dovremmo occuparci quotidianamente. Contrariamente alla regola di un maestro del nostro giornalismo – «Non permettete alla verità di rovinare una bella storia» – penso che anche solo la serietà umana oltre che professionale per accertare ciò che è veramente successo, soprattutto quando ci sono di mezzo accuse devastanti come quella di pedofilia, dovrebbe trattenerci dal rovinare una vita per raccontare una bella storia. Anche perché chi ci legge, soprattutto quando ci occupiamo di cronaca, nonostante tutto quello che si dice sul nostro essere “prezzolati”, tende a credere a quello che scriviamo.

Casotto prende spunto da una vicenda specifica. Ed esemplare: il presunto “scandalo Sorelli”, un asilo bresciano dove 12 fra maestre, preti e bidelli furono indagati per pedofilia.

Nell’epoca che teorizza il dubbio sistematico come anticamera della verità, stupiscono le certezze granitiche di certe persone, rappresentate da frasi come questa: «Trovo assurdo che la Curia di Brescia non si schieri dalla parte delle vittime. Abbiamo analizzato le perizie con l’aiuto di investigatori stranieri. La conclusione è che tutto quello che è successo va inquadrato nella più ampia fattispecie degli abusi ritualistici di stampo satanico. Gli elementi ci sono tutti: escrementi, torture, croci, religiosi deviati. D’altronde la stessa perizia del tribunale parla di abusi ritualistici». A pronunciare queste parole, in piena vicenda giudiziaria in corso, con conseguente battage mediatico, era il presidente dell’associazione Prometeo di Pisogne (Brescia), Massimiliano Frassi.

Le apodittiche affermazioni di Frassi si riferivano allo “scandalo Sorelli”, un asilo comunale di Brescia dove prima del 2003 si sarebbero verificati (ma per molti il condizionale è superfluo) casi di pedofilia e abusi sessuali sui bambini che videro indagate dodici persone: maestre, preti, bidelli. Quattro posizioni furono archiviate subito, otto persone finirono sotto giudizio. L’accusa chiese condanne per 125 anni per abusi sessuali su ventitrè bambini. Due maestre furono arrestate e fecero due anni di carcerazione preventiva. A dispetto delle certezze certificate dalle «perizie con l’aiuto di investigatori stranieri», tutti gli imputati sono stati assolti in tutti e tre i gradi di giudizio perché «il fatto non sussiste».

Bisogna rileggere: il fatto non sussiste. La sentenza di primo grado parla di testi inattendibili perché inquinatisi l’un con l’altro presi da una legittima ansia di conoscenza e timore per i figli. Nelle loro sentenze i giudici parlano di «psicosi collettiva» e «contagio emotivo». Come è potuto succedere? Purtroppo in nome del “bene dei bambini”. In nome di tutti i sentimenti buoni che proviamo nei loro confronti, in nome dell’ansia per una giustizia alimentata dalle nostre sacrosante emozioni, che sono così preponderanti nel giudizio di valore che immediatamente sputiamo su avvenimenti e persone da non tenere in nessuna considerazione l’accertamento della verità. Che è un procedimento che richiede distacco, tempo e prudenza; soprattutto quando ci sia di mezzo la libertà, la dignità, il lavoro e l’accettazione sociale di una persona.

Libertà, dignità, lavoro, accettazione sociale: forse il “risarcimento” previsto dallo Stato per gli imputati non ridarà loro neanche uno di questi quattro condizioni-base per una vita civile. Né riuscirà a lavare l’onta.

Ripetiamo: il fatto non è stato commesso, e per un’accusa inconsistente due persone si sono fatte due anni agli arresti, hanno perso il lavoro, hanno avuta rovinata la vita, la reputazione. Adesso lo Stato le “risarcirà” per ingiusta detenzione con trecentomila euro a testa, ma risarcimento è parola inadeguata. La gogna durata sette anni non ha risarcimento. Credo che molti, anche nella nostra categoria, dovrebbero chiedere loro pubblicamente scusa. Sperando di venire perdonati.

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