ROMA – Negli ultimi dieci anni il numero di morti a causa di un infarto sono dimezzati. Non significa, però, che anche il numero di infarti si sia ridotto del 50%: in Europa occidentale la quota è di 300 colpiti all’anno ogni 100 mila abitanti. Tuttavia, un miglior stile di vita e l’avanzamento delle tecniche sanitarie di contrasto hanno prodotto significativi miglioramenti. Una dieta più accorta e, soprattutto, il calo dei fumatori. Il rapporto redatto dalla Oxford University è il risultato di una ricerca condotta su 800 mila uomini e donne colpiti da infarto tra il 2002 e e il 2010, che ha verificato come la mortalità si sia dimezzata nella fascia di età più a rischio, tra i 65 e i 74 anni.
L’infarto, ricordiamo, dipende dalla occlusione di una delle arterie che irrorano di sangue il muscolo cardiaco: un tappo ostruisce il flusso di sangue, se l’occlusione dura abbastanza a lungo la porzione di cuore a valle dell’arteria si dice che va in necrosi, ovvero le sue cellule muoiono. Stili di vita sani, la scoperta di nuovi farmaci curativi e preventivi, ma soprattutto la velocità con cui si arriva in un’unità coronarica hanno concorso a dimezzare il rischio di morte. In generale non sopravvive all’infarto tra il 15 e il 25% dei colpiti: arrivare in tempo all’ospedale riduce al 7% questa eventualità. Fino a 60 anni i maschi sono colpiti da due a quattro volte più delle donne, con l’arrivo della menopausa il rapporto è alla pari.
E in futuro cosa ci aspetta? Due sono le variabili da tenere di più in considerazione, un pericolo e una speranza. Nonostante l’appello a mantenere uno stile di vita corretto, nel quale siano banditi l’eccesso di grassi saturi e il fumo di sigarette, obesità e diabete saranno le patologie più diffuse dei prossimi anni. Infatti, la stessa ricerca, ha evidenziato che tra i giovani non c’è stato lo stesso arretramento del numero degli infarti registrato nelle altre fasce di età. La speranza, invece, è tutta nella capacità futura di riparare il cuore danneggiato attraverso l’uso di terapie rigenerative dalle cellule staminali, anche non embrionali. A tal proposito il problema è soprattutto innescare nelle cellule staminali adulte la funzione di contrarsi. Uno studio italiano, finanziato dal ministero della Salute e firmato da due ex cervelli in fuga (Roberto Rizzi e Claudia Bearzi) è all’avanguardia sul campo: pochi geni adulti hanno “ricordato” (annota Mario Pappagallo sul Corriere della Sera) alle cellule adulte come avevano fatto da “bambine” a diventare contrattili.