L’articolo di Salvatore Settis su Repubblica può aiutare a capire meglio perché la sinistra in Italia è in difficoltà.
Settis è stato presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali fino al 24 febbraio 2009, quando si è dimesso in polemica con il ministro Sandro Bondi ed è stato sostituito non da un funzionario di partito ma da una delle più illustri figure della cultura italiana, l’archeologo Andrea Carandini.
Il suo intervento su Repubblica è intitolato “Matrimonio al museo per salvare Picasso” e affronta il tema su i musei, oltre a chiedere denaro a aziende e privati, possano sporcarsi le mani con attività che con l’esposizione di quadri e statue e altri oggetti d’arte hanno poco a che spartire.
Settis si chiede se “raccogliere donazioni dai privati è solo un capitolo di quella “arte di arrangiarsi”, come esporre automobili a ridosso dell’Ara Pacis” e la risposta è ovvia e scontata: “Accettare donazioni (in denaro o in opere d’arte) è una tradizione che ha radici lontane e gloriose, specialmente nei musei britannici e americani, e comporta un accresciuto senso di consapevolezza e di “proprietà” del patrimonio culturale pubblico da parte dei cittadini”. Questo “nulla a che vedere con l’uso improprio dei musei come cornice per operazioni pubblicitarie, cene aziendali, matrimoni kitsch”.
Fin qui possiamo anche essere d’accordo, in linea di principio, anche se resta il dubbio che se i matrimoni non fossero proprio kitsch andrebbero bene, a meno che Settis non sia contrario in assoluto ai matrimoni e li consideri con ragione tutti kitsch. Tuttavia non si può nascondere il fatto che una posizione oltranzisticamente rigida appaia tanto discendere dall’atteggiamento di don Ferrante, chiuso in quella turris eburnea che proprio la sinistra culturale e intellettuale, provò a rompere dopo la guerra.
C’è un esempio noto a tutti, quello del Metropolitan museum, di New York, che non manca di chiedere denaro a tutti, ma proprio a tutti, dai milioni di dollari dei ricchi cittadini e delle loro fondazioni, ai cinquecento dollari di contributo straordinario alle poche decine di dollari dell’iscrizione annuale; ma che anche non si vergogna di ospitare, ad esempio nei locali delle antichità romane, cene per centinaia di persone sedute e sfilate di moda.
Il risultato di tutto questo è che mentre da noi i musei si dibattono nelle spire del favore governativo, a sua volta alle prese con l’inesorabile miseria che il disavanzo pubblico scarica su tutto quanto non produca un ritorno immediato di voti (caso dell’Alto Adige citato da Settis), musei come il Metropolitan offrono ai loro visitatori occasioni sempre nuove di arricchimento culturale.
Peggio della chiusura alla “svendita di se stessi” che fanno i musei, è il rimedio che Settis propone, a dire il vero in termini un po’ fumosi e incomprensibili per un cittadino medio: “Proviamo a rilanciare la funzione del museo, facciamolo conversare con la città come essenziale nodo urbano che s’innesti sul tessuto civile e sociale. Facciamolo diventare, non con cene aziendali ma nemmeno con mostre pretestuose (ce ne sono già troppe), la proiezione della città, la distillazione e la vetrina della sedimentazione storica e della memoria collettiva, e non unhortus conclusus che facilmente si trasforma in ghetto, “cimitero delle arti”, e subito dopo in deposito bancario di valori (in senso pecuniario) disponibili alla vendita, a cessioni più o meno dichiarate o mascherate. Richiamiamo noi stessi, e chi ci governa, al senso di responsabilità: parlare oggi dei musei non riguarda il passato, ma il futuro”.
Non si capisce se Settis veda in questo una proiezione alta di via del Corso a Roma il sabato pomeriggio o della Marina di Nettuno la domenica. Ma il Metropolitan, la domenica, è esattamente quello che vorrebbe lui, un luogo di pellegrinaggio di tutte le componenti sociali, anzi, trattandosi della domenica, certamente delle classi meno abbienti, non dotate di seconda casa, cui oggi viene proposta come unica alternativa colta una passeggiata, magari con i pattini, tra i fori imperiali.
Ma il Metropoliutan, che si “svende”, ce la fa a esserlo, i musei del nostro professore restano sempre chiusi nelle loro torri, nemmeno di avorio.