E’ un vulcano che erutta dal fondo del mare centomila barili di petrolio al giorno, eppure, secondo il metro un po’ ottuso della nostra vita quotidiana ci risulta meno “fastidioso” del vulcano islandese e della sua nuvola. Fa più danni di un incidente in una centrale nucleare, stanno provando disperamente a sigillarlo con un “sarcofago” come quello di Chernobyl. Eppure pensiamo ci si possa più o meno tranquillamente convivere: un problema per i pescatori di gamberetti e per le tartarughe, laggiù, mica da queste parti. E invece è una maledetta storia “globale”, una dannata storia di soldi quella del petrolio sfuggito di mano all’uomo.
Era il 2004 e le autorità federali statunitensi esprimevano dubbi sui “pistoni di sicurezza”, quelli usati dalla Deewater Horizon nel pozzo gestito per conto della British Petroleum. Dubbi che i pistoni potessero “tenere” a così grande profondità, quasi quattro chilometri sul fondo del Golfo del Messico. C’erano dubbi ma allora perchè trivellare fin laggiù dove la sicurezza non era e non è garantita? Il perchè sta nella fine del “petrolio facile”, cioè quello estraibile a minori profondità. Fino alla fine degli anni Ottanta la maggior parte dei pozzi erano in acque superficiali. Nel 1995 da sei impianti “deepwater”, cioè molto profondi, uscivano 186mila barili al giorno. Otto anni dopo, nel 2003, le piattaforme “profonde” erano venti ed estraevano 737mila barili. Profondi, cioè sotto i tre chilometri e sotto i tre chilometri nessuno sa davvero come intervenire se una valvola si rompe. C’è la possibilità che in quelle condizioni, con quella pressione e nessuna visibilità, la falla non si possa tappare. E quindi il greggio continuerà ad uscire fino all’esaurimento del pozzo. E’ già successo nel 1979, pozzo messicano di Ixtoc, durò per nove mesi. Anche stavolta potrebbe durare per mesi e sarebbe Apocalisse. Rischiata, anche se non cercata, dalle compagnie perchè il mondo chiede petrolio e il petrolio sta laggiù in fondo, oltre la soglia di rischio.