Quando vi sentite in vena di orgoglio nazionalistico, o di piangervi addosso per come le cose vanno male, leggete qualcosa che descriva come era l’Italia ancora poco tempo fa, così tornerete con i piedi per terra. A
tempo stesso sarete più consapevoli dei progressi compiuti, grazie all’Italia unita, che ci ha trasformato da agglomerato di staterelli e stato unitario di dimensioni fisiche e di mercato quasi competitive e poi all’Europa, che ci ha fatto fare il salto degli ultimi qurant’anni, dei cui benefici godiamo anche nel pieno della recessioneQui siamo a Roma, nel1885, quindici anni dopo l’ingresso dei bersaglieri nella città ancora del Papa, attraverso la breccia di Porta Pia.
A Porta Pia, che oggi assiste muta al convulso traffico di uno degli intrecci di strade e sottostrade più caotici della città, all’epoca Roma terminava e aveva inizio la campagna.
La scena che segue è tratta dal romanzo di Gabriele D’Annunzio “Il Piacere” e si svolge a un paio di chilometri da Porta Pia, dove oggi vivono decine di migliaia di persone in un quartiere residenziale elegante di ceto medio, con tanti bei negozi e ristoranti, Monte Sacro, sorto negli anni ’50 del novecento, cioé ben settanta anni dopo il racconto.
I protagonisti sono due amanti in chiusura di relazione, due nobili romani, che si sono spinti a cavallo fino alle rive dell’Aniene, oggi invisibile in mezzo ai palazzi.
Dove si può chiedere acqua? Si diressero allora verso l’osteria romanesca, passato il ponte. Alcuni carrettieri staccavano i giumenti, imprecando ad alta voce. Il chiaror dell’occaso feriva il gruppo umano ed equino, con viva forza.
Come i due entrarono, nella gente dell’osteria non avvenne alcun moto di meraviglia. Tre o quattro uomini febbricitanti stavano intorno a un braciere quadrato, taciturni e giallastri. Un bovaro, di pel rosso, sonnecchiava in un angolo, tenendo ancóra fra i denti la pipa spenta. Due giovinastri, scarni e biechi, giocavano a carte, fissandosi negli intervalli con uno sguardo pieno d’ardor bestiale. E l’ostessa, una femmina pingue, teneva fra le braccia un bambino, cullandolo pesantemente.
Mentre Elena beveva l’acqua nel bicchiere di vetro, la femmina le mostrava il bambino, lamentandosi. “Guardate, signora mia! Guardate, signora mia!”
Tutte le membra della povera creatura erano di una magrezza miserevole; le labbra violacee erano coperte di punti bianchicci; l’interno della bocca era coperto come di grumi lattosi. Pareva quasi che la vita fossa di già fuggita da quel piccolo corpo, lasciando una materia su cui ora le muffe vegetavano. “Sentite, signora mia, le mani come sono fredde. Non può più bere; non può più inghiottire; non può più dormire…”
La femmina singhiozzava. Gli uomini febbricitanti guardavano con occhi pieni di una immensa prostrazione.
