Enel, Eni, Terna e Poste: tempo di nomine pubbliche, vincoli che i privati non hanno

Massimo Mucchetti ci ricorda, sul Corriere della Sera, che “manca un mese al 4 aprile, scadenza entro la quale il ministero dell’Economia dovrebbe definire le liste” dei nuovi amministratori delle aziende pubbliche, sostituendo gli attuali o confermandoli. Il tema è importante,  giustamente il Corriere posiziona l’articolo come “fondo”, il più importante del giornale del sabato 5 marzo in cui lo ha  pubblicato.

Tutto è fermo in questo momento nel grande mondo delle aziende controllate dallo Stato italiano, che producono il 20 per cento della nostra ricchezza nazionale.

Nulla e nessuno si muove, sopra la superficie della grande paolude romana, ma sotto il pelo dell’acqua, avverte Mucchetti, “sulle nomine ai vertici di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna e Poste Italiane torna a gravare l’ombra dei partiti della coalizione e dei circoli opachi”: “Si legge di incontri e di cene dove seggiole e poltrone vengono ripartite secondo le appartenenze dei manager senza alcuna attenzione ai risultati di ciascuno e al futuro delle imprese”.

Condizione desolante, “per un governo che promette meritocrazia e frustate liberiste”, per il quale dunque “le nomine rappresentano un banco di prova di fronte ai mercati e all’opinione pubblica”.

Poi Mucchetti imbocca un sentiero ancora più desolante, anche se gli manca il coraggio di andare fino in fondo. Non è molto chiaro, forse lo frenano gli attacchi che ha subito nei mesi scorsi da alcuni importanti azionisti a cominciare da Fiat: “Negli ultimi anni, i giochi di potere in alcuni grandi gruppi privati— da Telecom Italia alle Generali, da Unicredit a Intesa Sanpaolo— hanno minato il modello del grande capitalismo nazionale”.

Poi però la fede nel privato, contrapposto al pubblico come fonte di Bene contrapposto al mondo di Satana, lo ferma. Anche se “la cosa può scoraggiare chi l’aveva idealizzato”, la fede di Mucchetti è che “il settore privato non cesserà di cercare nuove strade”, cosa che peraltro è più che naturale sotto la spinta della forza del mercato e anche della avidità umana che è la molla del progresso.

Poi la considerazione, giusta quanto contorta nell’esposizione, che “lo Stato non avrebbe giustificazione se abdicasse al suo ruolo di azionista pubblico, e dunque responsabile, lungimirante e trasparente, laddove il governo ha deciso di non procedere oltre con le privatizzazioni”. Anche in questo caso non è la lotta tra Bene e Male, ma tra due diverse categorie di destinatari del profitto (di sfruttatori, avrebbe detto Mucchetti in gioventù): i partiti attraverso gli stipendi pagati ai loro uomini e le loro assunzioni nonché gli appalti agli amici degli amici, o i grandi capitalisti stranieri, le grandi banche americane, unici in grado di partecipare al banchetto delle privatizzazioni,

Cosa vuole dire esercitare il ruolo di azionista pubblico? Risponde Mucchetti: “Si paragonano le grandi aziende a partecipazione statale (chiamiamole con il loro nome) alle loro pari pubbliche e private in Europa e nel mondo”.

Ancora una volta si avventura in un territorio sconosciuto, dove le logiche di pubblico e privato si confondono in un garbuglio di fanghiglia, dove le belle parole valgono poco. Quando le tariffe la alzavano la Sip  o l’Enel pubbliche, tutti a calcolare le lire, ora che tocca a Telecom o peggio ancora a Enel, tutti zitti e pecoroni. Ancor peggio sulle nomine: quanto contano nelle nomine nel settore privato simpatie e legami più o meno confessabili? Nessuno ha il coraggio di parlarne mai. Quando Mucchetti scrive la ricetta delle qualità del bravo manager, “che si riassumono nella capacità di generare buoni profitti e di osservare una rigorosa disciplina finanziaria senza compromettere lo sviluppo futuro prosciugando le risorse interne per drogare il rendimento immediato per l’azionista”, questo vale per pubblico e per privato. Ma i privati sono esposti a amori e odi, partigianerie e sicofanterie esattamente come i pubblici, anzi di più perché non ci sono i controlli della politica e i rischi di arbitrio sono più elevati.

Per questo appare un po’ velleitario quel che scrive Mucchetti, che “nel 2011, allo Stato azionista si richiede certamente di scegliere persone competenti e integre, capaci di presidiare l’impresa, anche contro l’invadenza dei partiti”. Provate a chiedere lo stesso coraggio a un dirigente del settore privato. Quando l’avranno mandato via, saranno in tanti a dire che l’azionista ha il diritto di cambiare il management quando non si trova più in sintonia. Verissimo. E allora perché non riconoscere lo stesso diritto alla sintonia anche al settore pubblico?

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Marco Benedetto