Massimo Gaggi, che scrive da New York, analizza per il Corriere della Sera di domenica 2 gennaio 2011 la collocazione ideologica e culturale della sinistra nel mondo e in Italia e conclude:
I guai comuni a quasi tutti i movimenti progressisti dell’Occidente nascono dal fatto che nei Paesi industrializzati la sinistra aveva costruito la sua idea di «sviluppo solidale» su tre pilastri: 1) un’enfasi sulla redistribuzione della ricchezza che trascurava l’imperativo della sua produzione; 2) l’intervento dello Stato in economia alimentato da un ricorso senza limiti al denaro pubblico; 3) una sorta di «terzomondismo» , di fratellanza con gli immigrati (anche clandestini) e coi movimenti operai dei Paesi in via di sviluppo basato sulla giusta aspirazione a liberare tutti i popoli dalla povertà. Senza, però, tener conto di cosa questo avrebbe significato per i Paesi ricchi in un mondo nel quale, come Bill Clinton ripete ormai da quasi vent’anni, l’unico sovrano è l’interdipendenza.
Oggi i primi due pilastri sono stati polverizzati: la crescita non è più il dato scontato, «automatico» degli anni della ricostruzione postbellica e del successivo «boom» dell’Occidente industrializzato. Va conquistata con le unghie e coi denti e i Paesi emergenti affamati di sviluppo sono comprensibilmente assai più dinamici di chi il benessere l’ha già raggiunto. In secondo luogo l’iperindebitamento che ha portato molti Paesi europei e gli Usa sull’orlo del «meltdown» fiscale rende quasi inutilizzabile la leva pubblica per sostenere l’economia e alimentare il «welfare» . Quanto al «terzomondismo» , le nuove potenze emergenti (e mercatiste) hanno travolto l’Occidente.
La sinistra è la parte politica maggiormente spiazzata dal cambiamento, la più tentata di resistere perché non riesce a definire una nuova piattaforma politica appetibile come quelle del passato. Non ci riesce perché continua a difendere conquiste inesorabilmente erose dalla realtà: dal livellamento imposto dalla globalizzazione, ma anche da una rivoluzione tecnologica mai completamente metabolizzata dal mondo politico e sindacale. Anziché analizzare fatti positivi (mezzo mondo uscito dalla schiavitù della fame) e meno positivi (il trasferimento di ricchezza dall’Occidente all’Asia), molti da noi preferiscono non vedere.
E’ significativo e sorprendente che da noi a toccare questo problema — affermando con forza che l’imperativo assoluto deve essere quello di tornare a crescere, a produrre ricchezza, prima di discutere del resto— sia stato, nel discorso di Capodanno, il capo dello Stato, Giorgio Napolitano: un personaggio che per la sua storia e la sua età avrebbe potuto essere portato a guardare al suo passato più che a scrutare il futuro.
