Viola Frey è un’artista che merita maggiore attenzione, di critica e di pubblico, di quanto finora le sia stata attribuita, sostiene, il New York Times. Le ragioni della sua relativa anonimità oscurità dipendono forse dalla sua «insularità». Frey, che è morta nel 2004 all’età di 70 anni, ha passato la gran parte della sua vita tra le mura, quanto meno ideali e psicologiche, di San Francisco.
In questi giorni il Museo di Arte e Design di Manhattan espone una retrospettiva dell’artista dal titolo «Bigger, Better, More: The Art of Viola Frey » («Più grande, migliore, di più: l’arte di Viola Frey»). L’esibizione è stata organizzata congiuntamente del Racine Art Museum del Winsconsin e dal Gardiner Museum di Toronto. Per i non iniziati, questa mostra è senz’altro la migliore occasione per fare il proprio ingresso nell’universo artistico di Viola Frey.
Frey appartiene ad una generazione di artisti americani che hanno reso la scultura in ceramica una componente riconosciuta dell’arte contemporanea degli anni 60 e 70. Nei tardi anni 50 fu Peter Voulkos a iniziare il cambiamento. Con i suoi lavori dalle forme crude e non figurative, influenzati dallo spirito dell’espressionismo astratto, ispirò la produzione successiva di artisti come Robert Arneson, Ken Price e, più tardi, Viola Frey.
Una delle cifra caratteristica dell’arte della californiana è la monumentalità. Nei corridori del museo si allineano gigantesche sculture in ceramica di donne e uomini alte 3 metri e più. Portano completi da lavoro, cravatte, vestiti qualunque. In un alchimia misteriosa coniugano una sinistra e imponente presenza e una goffaggine da cartone animato.
Lo smalto che li ricopre giustappone violentemente colori stridenti. I colossi di Gray sembrano così formati da un crudo accoppiamento di blocchi di pietra. A causa delle loro espressioni di irritazione e disappunto, per il visitatore che si aggira in mezzo a questi moderni ciclopi nasce la sensazione infantile di un bambino circondato da adulti risentiti da misteriosi e incomprensibili problemi.
Attraverso questo realismo magico, kitsch e colossale, la Grey riesce ancora oggi a imporre la sua personalità artistica. La californiana ha anche lasciato una traccia personale e ironica in due sculture qui esposte. « Double Self » (1978) è una coppia di due ritratti gemelli dell’artista rappresentati con i capelloni anni 70, sandali, e le mani in aria. In « Baby in Bay Carriage» (1975-1999) si immagina come un enorme e comico poppante che sonnecchia in un passeggino.
L’unica nota negativa di questo evento importante per la riscoperta di un’artista poco conosciuta è l’allestimento della mostra. Le sculture sono infatti disposte in maniera poco valorizzante, a volte accostate ai muri, impedendo così ai visitatori di ammirarle a 360 gradi, a volte allineate come una fila di sospetti, facendone perdere così la primitiva potenza evocatrice.