ARCIDUCA (al culmine della sapienza): Orsù, io affermo solennemente che il damerino è di colei che non vuole lo si tagli, perchè dal pianto e dal supplicare chiaramente capisco che ella è la vera padrona del giovane e che questa bionda glie lo ha rubato. Si dia dunque il damerino alla bruna e si mandi via l’altra vergognosamen-te.
VOCE NARRANTE: Applaudono all’unisono gli adulatori professionali, cui l’Arciduca fa distribuire gelati e semifreddi. Alcune signore corrono a baciargli la pantofola per dimostrare di aver apprezzato la saggia sentenza. Il solo che non si unisce ai piaggiatori è Bertoldo che, anzi, volge le terga al trono in segno di deplorazione. Il gesto di malcreanza riscuote l’unanime condanna e manda in furia il pur tollerante Sovrano.
ARCIDUCA: Gaglioffo, mille volte maledetto il giorno che ti chiamai alla mia presenza augusta! Perchè mostri il deretano al tuo Signore che con il semplice movimento di un’unghia potrebbe farti gettare nel fiume munito di macina al collo? Temevi forse che quel giovane lo avrei fatto veramente tagliare a pezzi? Era una semplice minaccia, la mia, e ha sortito il giusto effetto.
BERTOLDO: Evito di lodare la tua sentenza, come fanno questi ruffiani ambosessi, perchè ti sei lasciato ingannare dai pianti femminili. In realtà era subito apparso chiaro che nè la bionda nè la mora potevano dirsi legittime titolari del giovanotto. Bastava guardare intorno: non c’era dama nel salone che non se lo mangiasse con gli occhi e non c’era sguardo muliebre al quale il cascherino non rispondesse con maliziose sbirciate. Appena fuori, vuoi scommettere che pianta la brunetta e va a infilarsi nel letto di una delle tue gentildonne? Io, il torello, lo avrei comunque fatto tagliare. Allora sarei stato davvero salo-monico.
ARCIDUCA: Forse non hai tutti i torti.
BERTOLDO: Mi compiaccio con te, Signore. Chi am-mette il proprio torto è come avesse ragione
ARCIDUCA: E se non lo ammette?
BERTOLDO: Allora vuol dire che ha proprio ragione.
VOCE NARRANTE: Nel silenzio della sala si ode il trillo di un telefono cellulare. E’ quello dell’Arciduca, gli altri hanno il divieto di tenerlo acceso alla presenza del Sire.
ARCIDUCA: Messaggio… mi è arrivato un messaggio (cincischia con l’apparecchio sino a quando compare un sms). “Xkè nn mai tlfn? mr”. Cos’è, arabo, cinese, uno scherzo? (indicando il Ministro della Tecnologia). Guarda tu se capisci qualcosa?
MINISTRO DELLA TECNOLOGIA: (si avvicina e s’inginocchia ai piedi dell’Arciduca) Xkè nn mai tlfn? mr. Sem-plice, Maestà. Dice: Xkè perché, nn non, mai mi hai, tlfn telefonato? Perché non mi hai telefonato? La firma è di una signora o signorina mr, Mara.
ARCIDUCA: (arrossendo violentemente) Mara? Mai sentita nominare. Dev’esser stato un errore. Questi telefoni riescono a creare certe situazioni incresciose. Ricordatemi che devo licenziare il direttore generale della Telefonica dell’Arciducato. (Imbarazzato, rivolto al Cancelliere). L’udienza è tolta, fai sgomberare la sala. (A Bertoldo) E noi ripren-diamo le nostre conversazioni. Lo sport ti appassiona? Ne pratichi qualcuno?
BERTOLDO: La lotta libera. Però soltanto come spettatore. Strano divertimento, questo dei pugni, dei calci e dei marovesci, tutto fasullo nonostante l’apparenza. Mi ha suggerito due commedie sintetiche. Te le propongo in successione. La prima l’ho intitolata ovviamente
