Josè Van Roy, l’altro Dalì

ROMA – In una biografia del 1984 si definì “l’altro Dalì”. Nel più recente romanzo era il “figlio del venditore di sogni”. José Van Roy Dalí non ha mai tentato di negarlo: l’ombra di suo padre ha pesato e continua a pesare nella sua vita, sia personale che artistica. La somiglianza fisica, i baffi “rivolti verso il cielo” (come li definiva il maestro catalano), ma anche il dna artistico: le affinità tra il padre del surrealismo e il figlio “segreto” passano anche attraverso la pittura, la scultura, la poesia, l’incisione e persino l’arte orafa. Anche se dimostrare la consanguineità con l’irriverente re dell’onirismo non è stato facile.

José Van Roy Dalí è nato il 17 febbraio del 1940 a Perpignan, nella Catalogna francese. Il padre non ha bisogno di presentazioni. La madre, Elena Ivanovna Diakonova, chiamata poi Gala da Dalì, era un’ebrea russa espatriata, già moglie del poeta Paul Éluard, che incontrò Salvador nel 1929, sposandolo cinque anni più tardi. José, però, visse con loro solo pochi mesi.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, infatti, viste le origini materne, furono costretti a rifugiarsi negli Stati Uniti. Poco prima di salire sul transatlantico Excemption a Mentone, al confine con la Francia, incontrarono la famiglia Rossi, conosciuta qualche anno prima ad Amalfi, a cui il piccolo Dalì fu affidato. Da quel momento visse in riva all’Adige, nei vicoli attorno a Corso Cavour, teatro delle sue scorribande in una Verona martoriata dai bombardamenti e poi impegnata a guarire dalle ferite della guerra.

La vicinanza dei “fratelli” acquisiti non evitò a José di essere un bambino difficile, solitario e incline a compiere stravaganze. “A tre anni desideravo diventare attore. A sette il Demonio. A nove Dio. Da allora in poi, le mie ambizioni si sono talmente evolute che traggo soddisfazione solo dalla consapevolezza di essere costantemente me stesso”. I primi vezzi artistici si presentarono a soli sette anni, quando eseguì le prime pitture che sistematicamente nascose a sguardi indiscreti per un eccesso di infantile egoismo.

Quando la guerra finì i suoi genitori non tornarono a riprenderlo. Anzi. Per un lungo periodo i Dalì credettero che fosse morto. Poi, quando riuscirono a mettersi in contatto con i Rossi, preferirono lasciare le cose come stavano “perché erano troppo presi da una miriade di impegni. Lasciarono che io proseguissi gli studi e si accontentarono di vedermi ogni volta che rientravano in Spagna. Ma venivano anche spesso a trovarmi a Verona”.

Verso il 1955 la famiglia Rossi si trasferì a Roma per evitare le “chiacchiere” e quando i Dalì decisero di riprendere José con sé, “i tutori mostrarono il motorino accartocciato con cui avevo avuto un grave incidente e raccontarono che ero deceduto. Così i miei veri genitori si rassegnarono”.

José intanto si dedicò sempre più assiduamente alla pittura, arrivando a sospendere temporaneamente gli studi, fermamente deciso a seguire i suggerimenti del proprio istinto testardo, ribelle, idealista e apolitico. Per protestare contro il giro di galleristi e critici compiacenti che “creavano” dal nulla le grandi firme dell’arte contemporanea, esponeva le proprie opere senza firma. E, per arrotondare gli esigui introiti di pittore “non allineato”, sconfinò nel cinema interpretando dei piccoli ruoli.

Questa attività lo portò a conoscere personaggi noti come Alberto Sordi, con cui ebbe un breve colloquio. “E che vorresti fà da grande?”, gli chiese Sordi.”Ho abbandonato gli studi per poter dipingere e fare quello che voglio. Qui faccio solo la comparsa, ma non mi dispiacerebbe un giorno di poter fare l’attore, lo sceneggiatore oppure il regista” rispose José. Sordi, piuttosto divertito, suggerì di terminare gli studi (“Almeno pe’ fa’ contenti i genitori”) e possibilmente di puntare tutto su una sola specializzazione. “Chi se mette a fa troppe cose insieme nun combinerà mai gnente nella vita. Io devo annà a lavorà… tu va a fa la comparsa, và!”

Nel 1960, effettivamente, riprese con poca convinzione i suoi studi di architettura e, nel frattempo, continuò a frequentare l’ambiente cinematografico e persino il mondo dei fotoromanzi e dei fumetti, utilizzando pseudonimi come Massimiliano Roy e Roy Milian per evitare inutili dispiaceri ai propri genitori che lo immaginavano diligentemente impegnato nello studio.

La sua stravagante e spensierata esistenza venne scombussolata ulteriormente da alcune rivelazioni che il padre gli fece sul mondo dell’arte. Rivelazioni che lo turbarono tanto da farlo piombare in una crisi profonda e bruciare in un falò tutti i suoi quadri. Fu solo grazie a una donna, Barbara, conosciuta nel 1973 e sposata solo un anno dopo, a riuscire a farlo risalire dal vortice in cui era sprofondato e facendolo riavvicinare alla pittura. “Barbara aveva guarito la mia follia con la corporea realtà del suo amore, ed ora doveva aiutarmi ad evadere dalla prigione immaginaria del mio angoscioso egoismo”.

Nonostante tutto il periodo successivo prolifico e particolarmente creativo per la sua pittura che, una volta di più, sottolineava richiami daliniani e surrealisti. L’ombra di suo padre, però, continuava a perseguitarlo. “Il desiderio di sconfiggere l’uomo – che invece avrei dovuto amare come padre – prendeva vita in me, e per non porre limite agli insani propositi del mio disegno, avrei ulteriormente osato, copiando il suo stile e la sua tecnica raffinatissima. Nel caso poi fossi riuscito a raggiungerlo, almeno tecnicamente, allegando del mio, sempre di più, in metafisica transizione – uscendo dalla “baffuta” crisalide – avrei alfine potuto superare e “distruggere” il Dalì-Laio, padre-non padre, amico-nemico, riflesso approssimativo e completamento totale di me stesso”.

Ed è proprio nel rendersi conto che l’interesse di buona parte della stampa nei suoi confronti verteva solamente sui complicati rapporti familiari con i suoi genitori, José si autoesiliò insieme alla moglie Barbara in una casa-museo nella campagna romana, a Velletri. La sua speranza è quella di far parlare solo le sue opere e le sue esposizioni artistiche, e non il suo cognome.

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Alberto Francavilla