Per celebrare il settecentesimo anniversario dell’Inferno, un gruppo di critici e cineasti ha creato la più recente opera cinematografica dedicata alla prima cantica della Commedia. “Abandon all hope” vuole essere un docufilm, un’esperienza visiva e intellettuale che racconta e spiega il viaggio di Dante e Virgilio attraverso i cerchi dei dannati.
“Abandon all hope” non è precisamente un film. Assomiglia piuttosto ad un documentario. E’ uno strano destino quello della Divina Commedia. Il capolavoro di Dante ha avuto infatti pochissima fortuna cinematografica. E dire che il poema sembrava fatto per vincere la sfida del grande schermo.
La Commedia di Dante è un’opera mimetica, espressiva, fatta di poesia ma anche di carne, sangue e merda, un opera che vuole descrivere tutto il creato, dagli stridori di denti al mistero della trinità. Consapevole dell’enormità dell’impresa, Dante diceva:
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
né da lingua che chiami mamma o babbo.
Quel descrivere “tutto l’universo” non era solo un itinerario geografico, ma anche un descrivere l’uomo e i suoi sentimenti, dai più turpi ai più sublimi. Quale strumento, dunque, più adatto del cinema per descrivere quelle potente emozioni? Se Gustav Doré era riuscito a tradurre in immagini immortali i più bei capitoli del poema, perché il cinema, fatto di immagini in movimento, non avrebbe dovuto riuscirci? Arcani misteri dell’arte… Ma chi ricorda oggi una scena, una sola, tratta da un film della Divina Commedia?
Tante sono le ispirazioni, che la Commedia ha fornito a generazioni di artisti e si riempirebbe uno spesso volume a raccogliere le molteplici pellicole che contengono citazioni del poema. Eppure, di fronte a questo profluvio, nemmeno un’opera è riuscita fino ad oggi a cimentarsi con l’integralità del poema, ed un paio soltanto con l’integralità di una cantica. Quasi che la titanica impresa del medievale Dante, (che aveva, per il suo capolavoro, sofferto « fami, freddi e vigilie »), non possa essere ripetuta nella società della tecnica e della divisione del lavoro. E così bisogna accontentarsi degli omaggi fatti al “sommo” da questo o quell’altro regista, oppure di episodi minori del cinema portanti su un singolo episodio (Paolo e Francesca, Ugolino, etc.), alcuni francamente grotteschi come « Maciste all’Inferno ».
In questi primi anni del ventunesimo secolo, l’adattamento più popolare del poema dantesco non è un film (come nel 1911, con “Inferno” di Francesco Bertolini) o delle stampe (quelle di Gustav Doré) ma un videogioco, Dante’s Inferno, che ha venduto ad oggi quasi un milione e mezzo di copie. Dante è rappresentato come energumeno armato fino ai denti. Lucifero gli ha rubato Beatrice (vestita molto succintamente) e lui che fa? Va all’Inferno per riprendersela e massacra un innumerevole schiera di dannati, spiriti malvagi, mostri maligni, bambini dannati (sic), con l’aiuto di una falce rubata alla morte ed una croce magica che Beatrice gli ha lasciato.
A onor del vero, avremmo forse potuto averlo un capolavoro cinematografico tratto dal poema ma il destino, o la divina improvvidenza (dixit Flaiano), volle altrimenti. All’inizi degli anni 80, alcuni produttori americani fecero lungamente la corte a Federico Fellini. Un budget di milioni dollari era a disposizione del regista qualora avesse accettato di dirigere un film sul testo dantesco. Fellini ci pensò su, abbozzò qualche idea, poi giunse all’idea che nessun regista sarebbe mai stato adeguato a tale compito. La storia, per ora, gli ha dato ragione.