AMBURGO – Un grande artista, che sa di esserlo, ma che venera il culto della modestia prima di ogni altra cosa. Gerhard Richter è, probabilmente, il più importante pittore del dopoguerra, nonostante il suo nome non dica nulla ai più. Le sue opere hanno fatto discutere un’intera nazione, la Germania, i suoi quadri vengono battuti all’asta a suon di milioni. Euro o dollari, non importa: Richter non ama essere valutato in termini di denaro, il suo desiderio è che la società abbia bisogno di più arte. Ma non è così, ammette, allora si rifugia nella sua solitudine culturale.
Pittore solitario, uomo emblema di un tempo, Richter rifiuta ogni etichetta. Lo hanno bollato come neo-espressionista, e il mercato dell’arte americano gli ha regalato ricchezza e celebrità. Lo hanno definito cinico, decostruttivista e anche nichilista. Ma lui non ama essere messo in un barattolo di vetro. Proprio come Picasso, e in barba alla presunta coerenza cercata da case d’asta e collezionisti, Richter ha una natura camaleontica, mutevole: lui ama la bellezza, lui ama la pittura. Lui ama la qualità.
“Il grande problema della pittura di oggi, e il lato drammatico dell’arte moderna – ha dichiarato Richter – è che ora è possibile fare il nulla e semplicemente dichiarare che è arte. Senza nessun senso di qualità”.
Quando ha preso in mano per la prima volta una matita aveva solo 15 anni. Oggi le sue opere sono esposte in tutto il mondo. Dal Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo a Roma (MAXXI), al Bucerius Kunst Forum di Amburgo, che fino al 15 maggio gli dedica una mostra, passando per il tempio dell’arte contemporanea, il Museo di Arte Moderna (MoMa) di New York, che nel 2002 ha celebrato i suoi “40 anni di pittura”.
Nato nel 1932 a Dresda, Richter ha conosciuto da vicino la tragedia novecentesca delle ideologie. La Germania hitleriana, prima, con i traumi del secondo conflitto mondiale, e la Repubblica democratica tedesca (DDR) poi.
Nella sua città natale frequentava i corsi di Belle arti, la Germania socialista imponeva ai suoi studenti di imparare il “russo” e il “materialismo storico”. L’arte era sempre e solo ufficiale, la fede politica portava la legittimità culturale. Il realsozialismus dettava anche i canoni estetici. Realismo sociale, lo chiamavano. Per questo le prime opere di Richter non potevano che essere celebrazioni su murales di quel regime da cui ha deciso di fuggire nel 1961, per rifugiarsi nella Germania dell’Ovest. Le etichette non gli sono mai piaciute.
Dalla metà degli anni Sessanta Richter è stato attaccato quanto elogiato, più o meno allo stesso modo, per la sua precisione estrema, per l’esasperante opacità e per l’incredibile qualità della sua opera, che intimidisce. “Il pittore delle immagini sfocate” passa con disinvoltura dall’astrazione al realismo, dalla sfocatura alla nitidezza. L’audacia dei suoi dipinti è superata solo dall’esattezza del calcolo: l’apparente casualità è invece controllo, l’improvvisazione è studio, lo stile è precisione.
Basta dare un’occhiata al suo studio. Una grande scatola di scarpe bianca in mattoni e cemento ritagliata in un edificio industriale, in un sobborgo fuori Colonia abitato da famiglie troppo perbene (e perbeniste) da poter accettare quella visione. Tanto che ha piantato degli alberi (meli selvatici), rigorosamente in fila, per decorare il suo Muro di Berlino personale. Dentro, come fuori lo studio, tutto è al suo posto: il suo lavoro dipende da un controllo assoluto, la sua è una sindrome ossessivo-compulsiva.
Richter crede nel potere della pittura. Il suo lavoro chiede alla gente di interrogarsi, con mente fresca e lasciando da parte ogni romanticismo, sul rapporto tra controllo e libertà, austerità contro esuberanza, fede contro scetticismo. Possiamo credere in quello che vediamo? La questione non riguarda solo l’arte: è essenzialmente politica. E’ una questione di speranza.
Inutile dire che in lui questa coscienza di sé, e del mondo, si è formata grazie (o a causa di) al suo passato. Le ideologie, le dittature, le privazioni. Un esempio lampante arriva da una serie di 48 fotografie in bianco e nero, dipinte più di 30 anni fa, che ritraggono un pantheon di cupi uomini bianchi. Thomas Mann, Puccini, William James, Kafka. Ritratti che introducono il problema della figura paterna per i tedeschi della sua epoca: il problema di una generazione disonorata perché accecata dai fumi hitleriani, ma anche il problema di un uomo in carne e ossa, suo padre, che Richter ha sempre considerato “uno sfortunato intruso “, anche prima di scoprire che non era il suo genitore naturale.
La storia personale dell’artista si lega così a quella di una nazione. Nel 1957 Richter si è sposato con Ema Eufinger, a cui ha dedicato lo splendido “Emma – Nudo su una scala” (1966). E’ solo la prima volta, ne seguiranno altre due. Muralista di successo, Richter in quel periodo ha ottenuto i privilegi dello Stato, tra cui quello di viaggiare. E proprio in un viaggio, in Germania dell’Ovest, ha visto Pollock e ha capito di non essere abbastanza audace. La sua arte aveva bisogno di una rivoluzione.
Così nel 1961 la fuga dalla Germania dell’Est, il rifiuto dell’arte di regime e l’inizio di una nuova era, quella dei dipinti sulle fotografie. “Quando ho iniziato nei primi anni Sessanta la gente rideva. Mostravo chiaramente che dipingevo a partire dalle foto, sembrava così infantile”. Ma la provocazione era formale: l’intento era sfidare i cliché dell’espressione artistica dell’epoca, usando fotografie volutamente banali e impersonali, immagini di tutti i giorni, per costringere lo spettatore ad afferrare le percezioni espressamente dipinte. “La fotografia mi ha liberato, mi ha fatto scoprire un altro punto di vista. Ecco perché ho voluto sperimentarla. E non era la fotografia al servizio della pittura, ma la pittura al servizio della fotografia”.
Dipingere quadri astratti (o “in-dipinti”, come sono stati battezzati) “è come camminare, passo dopo passo, senza intenzione, fino a scoprire dove si sta andando”. Un percorso che lo ha portato lontano. Oggi Richter ha i capelli grigi, vive con la sua terza moglie, Sabine Moritz, e ha due figli adolescenti, un maschio e una femmina.
Lontanissimo sembra il ciclo di quadri “18 Oktober 1977”, in cui Richter ha ritratto i corpi senza vita dei terroristi della RAF, il gruppo di guerriglia urbana comunista e anti-imperialista che operò in Germania a partire dal 1970. “Mentre dipingevo questi cadaveri ero come un becchino”. Andreas Baader, Gudrun Ensslin, Jan-Carl Raspe e Irmgard Möller, fondatori del movimento, si sono suicidati nel carcere di Stammheim. Il tentativo di Richter, la sua ennesima provocazione, era dare un volto umano ai carnefici dell’ideologia, che per amore delle idee, si sono trasformati essi stessi in vittime.
Richter si definisce uno scettico. Anche in questo caso la sua arte è stata influenzata da motivi personali. La serie “18 Oktober 1977” non cercava solo di far riflettere la gente sul caso Baader-Meinhof (altro nome della RAF): per l’artista era anche un “congedo” dalla sua seconda moglie, Isa Genkzen, che sposò nel 1982. Un matrimonio competitivo, di artisti di massima intensità. Un matrimonio ormai finito.
Lontani sono anche gli anni Ottanta, quando il pittore – ormai noto per i suoi paesaggi e i suoi quadri astratti – ha sorpreso pubblico e critica dedicandosi a riprodurre candele accese. Un’immagine che potremmo definire di una religiosità laica, intima, motivata dalla necessità di reagire ai molteplici attacchi ai simboli sacri. Pur se non credente, Richter voleva denunciare l’ipocrisia dei più: “possiamo non essere religiosi, ma le immagini sacre ancora ci parlano e ci guidano”.
“L’arte è troppo personale” ha ammesso. “Penso di non far trasparire alcuna emozione, ma non ci riesco mai davvero. E’ imbarazzante”. Non è più il giovane ragazzo selvaggio di una volta. Richter non ha mai fatto quel che ci si aspettava da lui, la rottura delle convenzioni è sempre stato un suo leit-motiv. E ora, a 79 anni, si permette anche di mostrare il suo sentimentalismo, ritraendo il figlio che mangia la sua prima pappa. Ancora una volta, una mossa inusuale. “Spero solo che il desiderio di lavorare non mi lasci. Sono lieto di ricevere onori e offerte elevate. Oggi gli artisti sono valutati in termini di denaro, aste. Vorrei che la società avesse bisogno di più arte, ma non è così. Così mi sento molto solo in questa cultura”.