ROMA – A tre anni dalla morte di Paolo Picozza, quando non aveva ancora 40 anni, il Macro di Roma gli ha dedicato una mostra, “la prima importante mostra”, come ha scritto Ludovica Amoroso su Repubblica.
La mostra, ha scritto Gregorio Botta, “gli rende giustizia in ritardo, sarebbe stato bello se avesse avuto questo riconoscimento pubblico in vita”.
Gregorio Botta, che di Repubblica è vice direttore e nel suo tempo privato è anche buon pittore, è colpito dalla “energia” dalla “verità”, dalla “bellezza” che “viene sprigionata dalle grandi tele” come dalla “intensità racchiusa nelle piccole carte”.
Scrive Gregorio Botta:
“Come Pino Pascali, che tanto amava, Paolo Picozza se ne è andato troppo presto”
dopo una vita troppo breve
“che è stata una battaglia, un corpo a corpo continuo e ossessivo con il mistero della pittura.
“Bastava andarlo a trovare nel suo studio per vederlo: tele addossate una sull’altra alle pareti, stese a terra, pile di carte dipinte sparse sui tavoli.
“Paolo viveva letteralmente circondato dalla pittura, che era per lui cosa viva e mutava in continuazione. Per questo ogni lavoro era sempre non finito. Ogni opera – come ricorda la sua amica gallerista Francesca Antonini in catalogo – veniva dipinta e ridipinta fino all’ultimo momento possibile prima di andare in mostra: era consapevole della sua bravura, ma aveva l’insoddisfazione dei cavalli di razza che pretendono il massimo di espressione dalla propria arte.
“Cercava sempre un indicibile in più. Sguardo fiero, orecchino, lunghe basette: assomiglia un po’ a un pirata, ed era soprattutto un pirata dello sguardo che rapinava visioni alla realtà per restituirle al mondo. Che cosa dipingeva? Vedute rapide e veloci, periferie, montagne, paludi, orizzonti, Roma. «Strizzo gli occhi per vedere – diceva – e non dipingo mai dal vero. Ho bisogno di metabolizzare, ho bisogno di far decantare l’immagine. Possono passare mesi o anche anni prima che da ciò che vedo nasca un lavoro: a volte il risultato può anche essere poco attinente al vero, ma deve essere riconoscibile come realtà emotiva».
E così era. Il tempo serviva a filtrare l’immagine, a purificarla di ciò che non è necessario: l’importante è cogliere l’essenziale, come faceva lui con infiniti strati di colore insieme a pochi e potenti gesti. Così metteva in scena il suo rapporto con il mondo.
“La tela era il punto di incontro di questa relazione magica: e per questo doveva essere viva, agitata da colature, percorsa dal fremito del tempo, timbrata da minime scritte, abitata dalla vitalità del caso. Come inFalene,piccola bellissima opera, dove si scorgono le tracce lasciate da due falene che si sono poggiate sull’opera ancora fresca.
“Catrami, bitumi, magnifici bruni, terre di siena e pallidi azzurri cinerini hanno colorato il suo mondo di una pittura terrestre, calda, dove il gesto della mano, la pennellata veloce riusciva a costruire un paesaggio ai limiti dell’astrazione, come in una contemporanea riedizione del naturalismo informale.
“Ma negli ultimi anni aveva ridotto la sua tavolozza a un bianco e nero sempre più freddo, algido, come se un vento gelido lo attraversasse. «Voglio raffreddare la mia pittura», diceva, portando all’estremo la sua ricerca di essenzialità. E dipinse l’orizzonte di ghiaccio che si avvicina inesorabile nella grande tela In caduta libera, con poco cielo davanti: sigillo finale di una bellissima mostra, di una vita intensa”.
L’omaggio a Paolo Picozza, nota Ludovica Amoroso,
“viene racchiuso da Achille Bonito Oliva in un titolo che offre tutta la potenza tragica, romantica e contemporanea della mostra: “In caduta libera con poco cielo davanti”. “Immagini trasfigurate” di Roma, “tra vedute urbane e periferie possenti”, ma anche paesaggi di campagne arcaiche e meravigliose foreste. Quell’occhio, quella visione dell’artista sul mondo sarà offerta attraverso quaranta opere, tra cui tele di grandi dimensioni, dipinti su carta e alcuni tra i suoi ultimi lavori mai presentati, come un’intervista video fatta al giovane pittore”.
Le 40 opere in mostra sono state esaminate da Carlo Alberto Bucci:
“La monumentale archeologia industriale dei padiglioni testaccini del Macro è lo spazio ideale per la pittura di Paolo Picozza. Ma questi capannoni fatti di ferro, ghisa e pietra, di bianco, bruno e nero, sono, al tempo stesso, una dimensione che l’artista romano ha superato. Sciogliendola, attraverso il duro lavoro della pittura, nell’indefinito delle sgocciolature. Nell’assoluto”.
Il titolo dato alla mostra da Achille Bonito Oliva (“In caduta libera con poco cielo davanti”), nota Carlo Alberto Bucci,
“dà perfettamente voce alla natura romantica e tragica di questi quadri e del pittore che li ha realizzati. E si tratta di opere inscritte nel decennio che va dal 2001 delle Torri Gemelle al 2010 della morte dell’artista.
Il primo quadro è un “Senza titolo” in cui la matericità del supporto giustifica il riferimento “ai due versanti dell’oceano Atlantico, dalla pop art al nuovo realismo di Arman e Rotella”, proposto da Bonito Oliva nel testo in catalogo (edizioni Punctum). E “Senza titolo” sono anche le tele che chiudono – nel bianco abbacinante di vedute glaciali – un decennio sostanzialmente monocromo, colorato di nero, bitume e bruni, acrilico, smalti e olii. E tutto dedicato alla scarnificazione del dato naturale, verso l’assoluto della pittura.
Desolati sono i paesaggi romani di Carlo Picozza nel senso che in “Tiburtina in fasce”, “Stupida pineta”, “Salita per piazza dei Cinquecento” o “Stazione Prenestina”, come in tutti i suoi quadri grandi e piccoli, non circola anima viva. La (una) spiegazione a questa “vacatio” sta nelle parole del pittore stesso sul concetto di tempo dilatato: “Raffigura un’emozione vissuta in un arco temporale variabile ed è spesso per questo che non ci sono figure umane: magari ci passano dentro, ma non hanno il tempo di essere fermate” (2008).
Nell’esposizione lunga dell’occhio dell’artista sulla realtà, nelle disadorne quinte urbane che ne derivano e che ci riportano a Kiefer o a Sironi, ma anche negli aperti paesaggi nordici, innevati, in cui riecheggia la pittura del romanticismo, la natura – avverte Bonito Oliva – è tuttavia “una scena interiore in cui essa stessa tende ad assumere il pathos che sembra appartenere soltanto alla condizione umana”. L’uomo insomma è (dentro) il paesaggio”.