“Bolivia, nella miniera degli schiavi bambini”: Paolo Manzo sulla Stampa

Una miniera d’argento che è l’inferno dei bambini boliviani: Paolo Manzo è andato nelle viscere della montagna che domina Potosì, a sud di La Paz. Un labirinto sotterraneo di cinquemila gallerie, dove ogni mese restano uccisi venti minatori, spesso a causa delle esplosioni di dinamite necessarie per estrarre l’argento. Per non parlare di quelli che muoiono dopo essersi ammalati di silicosi.

La giornata lavorativa nelle viscere di Posotì dura dieci ore per guadagnare quattro euro.

Scrive Paolo Manzob sulla Stampa: “‘Le persone qui sono come le piante. Stanno. Respirano. Fino a che la morte non se le porta via’. María ha 35 anni, ma ne dimostra almeno 50 per la pelle bruciata dal sole e dal freddo. La sua descrizione di come si vive a Potosí è un pugno allo stomaco per chiunque voglia capirne di più di questa città della Bolivia tra le più alte al mondo – oltre 4 mila metri di quota -, che nell’epoca coloniale è stata la più grande e la più ricca di tutte le Americhe”.

“(…) Le numerose miniere del vicino Cerro Rico, che in italiano sarebbe la ‘montagna ricca’, hanno prodotto nei secoli oro e argento in quantità eccezionali facendo di Potosí, a partire dal 1546 – anno della sua fondazione come città mineraria – una delle terre promesse di ogni epoca, la zecca dell’impero spagnolo dei conquistadores se è vero che proprio qui, al Palazzo della Moneta, si coniavano le monete per tutta l’America Latina. Oggi, di questo passato coloniale e sfarzoso non resta più nulla. E per quanto l’Unesco l’abbia eletta Patrimonio dell’Umanità, basta fare un giro sulla montagna che domina Potosí – il Cerro Rico appunto – per vedere come l’estrazione mineraria abbia trasformato il luogo in un paesaggio lunare dove nel fango e sotto la pioggia battente, con temperature che arrivano anche a -10˚, centinaia di ragazzini si guadagnano da vivere sfidando ogni giorno quel mostro sotterraneo che è la miniera”.

“‘Ma noi abbiamo il tio che ci protegge’, mi spiega convinto Juan. Il ‘tio’ altri non è che la statua di un diavolo che, secondo la perfida invenzione dei colonizzatori spagnoli che così tranquillizzavano la loro preziosa manodopera, proteggerebbe la miniera. Ma Juan ha appena 12 anni e nonostante la vita durissima cui è sottoposto ha ancora addosso l’ingenuità dei ragazzini della sua età. Così racconta la sua vita: ‘Lavoro 8-10 ore al giorno. Non è facile, perché fa freddo e ogni volta si rischia di morire, soprattutto per il gas o quando i grandi, per accelerare l’estrazione, fanno esplodere la dinamite'”.

 “‘Ogni giorno qui muore qualcuno’ spiega Nico, sino a tre anni fa minatore, oggi volontario dell’associazione umanitaria Voces Libres, Voci libere in italiano, fondata da una cantante lirica svizzera, Marianne Sebastien, e diventata un punto di riferimento per i bambini e le famiglie della montagna. Silicosi, febbri tifoidee, Tbc, perfino il colera: si rischia davvero tanto a Potosí, dove la speranza di vita per chi lavora in miniera è di appena 40 anni. Eppure se un ragazzino guadagna 4 euro al giorno e un adulto il doppio, c’è ancora chi fa i soldi con il Cerro Rico. (…). Ma la maggior parte annega ogni giorno nella miseria più nera e muore ogni giorno, ragazzini compresi. Le donne,(…), sono quasi tutte analfabete, nonostante il presidente Evo Morales un paio di anni fa avesse annunciato al mondo che tutti in Bolivia sapevano leggere e scrivere. Una bugia clamorosa. I bambini, se vanno a scuola al mattino, poi debbono lavorare in miniera al pomeriggio, o viceversa. I loro padri, quando ci sono, tornano a casa ubriachi e violenti. ‘Abbiamo dato borse di studio a questi ragazzini perché possano lasciare la miniera’, spiega Mercedes Cortes, una delle coordinatrici di «Voces Libres». Il progetto è agli inizi ma sta funzionando anche se coinvolge solo una parte dei circa 5 mila minori che lavorano a Potosí. Oltre la metà in miniera, almeno duemila nel resto della città”.

“Come Sonia e Giovana, 13 e 14 anni. Di mestiere anche loro scavano come Juan, ma al cimitero. La metà delle fosse degli abitanti più poveri di Potosí, infatti, le hanno scavate loro, a colpi di pala e in cambio di spiccioli e di un tetto dove dormire. Sono orgogliose di ciò che fanno e, assieme ad altre centinaia di ragazzini comunque costretti a lavorare per sopravvivere, da qualche mese si sono riunite in un sindacato tutto loro, l’Unatsbo, che si batte per salari migliori e un’assistenza medica adeguata. Si riuniscono ogni sabato in centro a Potosí, dove hanno dato vita a un coordinamento nazionale. La Bolivia, infatti, non è solo il Paese più povero dell’America Latina il 60% della popolazione vive in povertà e il 20% in miseria – ma è anche quello dove il lavoro minorile è il più diffuso. I bambini minatori di Potosí, Sonia e Giovana, i tanti minivenditori di giornali, attraverso il loro sindacato aiutano adesso anche i loro coetanei costretti a turni massacranti nei mercati generali di Santa Cruz o di La Paz”. 

 

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Maria Elena Perrero