ROMA – Blitz quotidiano vi propone oggi come articolo del giorno quello di Malcom Pagani per il Fatto quotidiano, sulla vicenda Rossi-Ljajic.
Il ragazzino ha vent’anni. È maleducato, protervo e convinto di chiamarsi Diego Maradona. Invece all’anagrafe è Adem Ljalìc e la sua partita con il Novara, durata meno di duemila secondi, è appena terminata. Richiamato per l’uruguagio di ventura Olivera al minuto trentadue, Adem ciondola verso la panchina.
Non è contento. Straparla. “Pezzo di merda, vecchio di merda”. È abituato a farlo da quando è arrivato a Firenze di cui più dei monumenti, dicono, apprezzi le discoteche. Litigò violentemente con Sinisa Mihailovìc e adesso sta per provocare anche il suo successore, Rossi Delio da Rimini. Un padre che distribuiva l’Unità casa per casa, una vita porta a porta con la valigia da disfare da nord a sud, in peregrinazione costante da Foggia a Firenze. Ljalìc gli passa davanti, lo applaude, lo irride. “Te l’ha suggerita tua moglie la sostituzione?”. Seguono un paio di secondi di non ponderata riflessione in cui il signor Rossi, il tecnico che a Lecce trattava i minorenni del vivaio come un padre, decide di usare la cinghia. Gli punta il dito contro, poi si avventa tra le feritoie della panchina. Prova a colpirlo, poi tenta ancora. Un paio di schiaffi attutiti da giacche, braccia, grida, pugni in aria: “Mister, ma che cazzo fa?”.
Polvere, insulti e onomatopee. Non ride nessuno anche se Fedele Limone, storico vice di Rossi, uno che un nome da fumetto ce l’ha, capisce prima di tutti l’antifona e li divide. Ljalìc si divincola, trova una via d’uscita. Digrada verso l’esterno, incassa la solidarietà dell’ampia fronda anti-Rossi (Fèlipe, Romulo, De Silvestri), constata che non ha un solo graffio e per non perdere l’abitudine, infila anche un paio di “figlio di puttana”. Una brutta scena che a Rossi costa tre mesi di squalifica e la lettera di licenziamento (al suo posto Guerini), a Ljalìc l’espulsione dalla rosa e ai Della Valle l’ennesima frattura con la città, schierata, non da ieri, con il tecnico diventato con il passere delle ore eroe della curva.
Ieri mattina la voce di Rossi non tradiva emozione. Solo stanchezza da dividere tra telefonate in famiglia (tre figli, tutti in buona salute, di cui due, Greta, già fidanzata con Stefano Mauri della Lazio e Dario che lavora con Walter Sabatinidella Roma in qualche modo, ancorati al calcio) e voglia di dimenticare.
Se Dario Rossi parla di “gesto da condannare assolutamente” ricordando come però in 28 anni mai avesse ricevuto un solo schiaffo dal padre, Delio rimanda approfondimenti a giorni meno caotici lasciando sibilare un “Preferisco l’etica ai moralisti” che molto spiega sullo stato d’animo di un signore che rischia l’aderenza vita natural durante a un attimo fuggente che non gli appartiene. Nel calcio, al riparo dalle telecamere (e qualche volta, vedi Cantona, anche davanti) la resa dei conti, meglio se rusticana, è un eterno classico. Bestie, ormoni, maschi. La nascosta normalità della sfera. Da Nereo Rocco a Carletto Mazzo-ne (che a Bologna, ne attaccò al muro più d’uno) passando per Bobo Vieri e Marcello Lippi. E poi Mancini e Dossena, Altobelli che lo schiaffo a Hansi Muller, reo di non avergli passato il pallone a San Siro, lo tirò en-plein air. O “l’asciugacapelli” di Alex Ferguson, guru del Manchester United, lo scozzese che negli spogliatoi, durante i rari intervalli di difficoltà, tirava moccoli e scarpe ad altezza uomo (David Beckham ne uscì con il sopracciglio pronto per la sutura).
Il problema è che il gesto di Rossi coincide con una follia collettiva che sembra progredire rapidamente e non sempre l’Italia è pronta a sottili distinzioni. Così alla mente tornano le maglie fatte togliere dagli ultras ai giocatori del Genoa, lo sputo impunito di La-mela a Lichsteiner, le polemiche tra Allegri e Conte, le gentilezze riservate dai romanisti a Totti e compagni dopo il 2-2 con il Napoli, l’isterismo dei laziali a Udine. Scendendo di categoria e incontrando altre piccole storie ignobili, l’ex distrazione nazionale somiglia sempre più alla perfetta metafora di decadenza e impazzimento del Paese. […]