“Tra gli insorti di Tobruk: uccideremo noi il Raìs”. Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera

L’inviato del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi è riuscito, dal confine egiziano, a entrare in Libia nella regione della Cirenaica controllata dai ribelli. In un quadro generale molto confuso, vista la difficoltà di operare sul campo incontrata da giornalisti e telecamere, è prezioso avere delle voci di “prima mano” raccolte in un pezzo che Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno.

TOBRUK – Il momento più interessante per cercare di capire questo repentino dissolversi del regime di Gheddafi nella Libia orientale è l’incontro con i militari in una caserma che domina il vecchio porto. Tra loro è Sliman Mahmoud, che ora tutti chiamano generale, però sino a qualche giorno fa era brigadiere, l’ufficiale del distaccamento di Tobruk che decise di non sparare sulla folla e avviare invece la resistenza contro coloro che bolla come «i mercenari terroristi del dittatore».

Ma a spiegare con più dettagli è un suo sottoposto, Salah Obedi, 48 anni. «Di cui 30 trascorsi a servire nell’esercito. Avevo solo sei anni quando Gheddafi prese il potere» , tiene a sottolineare. Così racconta: «La mattina del 17 febbraio, sembra già una vita, ma sono solo 5 giorni fa, dai comandi di Tripoli giunse l’ordine che avremmo dovuto usare ogni arma pur di fermare le rivolte. Gheddafi stava già inviando anche da noi i suoi mercenari più terribili. Giovani africani del Ciad, Mali, Senegal, Sudan, Congo. Gente abituata a uccidere per soldi, sino a 12.000 dollari per ogni manifestante assassinato. E noi avremmo dovuto allearci con quei criminali per massacrare la nostra gente? Mai e poi mai. È stato allora che, come d’incanto, abbiamo preso in mano il nostro destino. Abbiamo capito che potevano essere liberi, non abbassare per forza il capo contro il ricatto dell’intimidazione. E la popolazione ha subito compreso. I nostri nemici comuni erano i mercenari prezzolati, non i giovani libici in piazza a chiedere libertà. Abbiamo aperto le caserme, distribuito armi e munizioni alla gente. Nello spazio di 24 ore l’intera provincia era in mano nostra».

Le sue parole sono confermate dallo scenario che si offre ai nostri occhi appena superato il confine egiziano a Solloum. Non c’è accesso a centro abitato, incrocio maggiore, edificio pubblico, che non sia presidiato da gruppi di giovani armati, con sciarpe e scialli attorno a viso e collo per proteggerli dalla sabbia sollevata dal vento freddo. Tanti non sembrano neppure diciottenni. Sono vestiti in modo raffazzonato: un vecchio giaccone mimetico troppo largo, pantaloni delle unità di carristi, scarponi militari impolverati. Agitano i Kalashnikov in segno di festa, battono le mani. [continua…]

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