ROMA – La mitica strada degli hippie, quella verso l’Afghanistan, rivive nell’articolo di Mimmo Candito su La Stampa.
Oggi, su quella strada che tagliava il mondo e dove Siddharta straparlava di misticismo e Kerouac borbottava frasi mozze che a un miglio puzzavano acide di whisky, c’è rimasta soltanto la polvere del tempo. I Balcani hanno ancora qualche lembo di paesino che la guerra non ha sventrato, e puoi credere che Einstein forse aveva ragione; ma già la Grecia è ormai un puttanaio infestato dove Zorba sta da parte a godersi il turismo di massa che consuma i propri rituali impudichi, per non dire poi della Turchia che, certo, svetta sempre incantata con i minareti blu di Istanbul ma dove le trovi più la paura e l’angoscia che in quel tempo ormai lontano ti stringevano lo stomaco non appena varcavi la frontiera e vedevi i baffoni neri dei gendarmi e ti vedevi già sbattuto nelle celle assassine di «Midnight Express» a patire assalti che avrebbero violato per sempre la tua verginità .
Lo «Hippy Trail» è una stimmate generazionale, consegnata in carta da pacchi a una fetta di mondo che oggi viaggia low cost, ha lo smartphone come protesi naturale, e dentro lo zaino porta comunque il tablet e la crema abbronzante. Ma questi il Pakistan se lo sognano a incastrarlo nell’itinerario del «Trail»; sì, a Lahore c’è ancora un poliziotto che per qualche centesimo ti fa una foto mentre te ne stai a cavallo del vecchio cannone Zamzama, lì di fronte al museo, e ti sembra di poter essere tuttora il fratellino di Kim che gira la ruota della vita, ma non v’è grano di follia che ti possa accompagnare a seguire il «sentiero» verso la valle del Swat perchè tra quelle montagne verdi la testa te la tagliano prima ancora che tu possa dire che Allah è certamente grande e merita ogni rispetto.
A Peshawar ci arrivi comunque ora con una specie di superstrada, e quel pezzo di Paese cencioso e polveroso, quello no, non è cambiato granché, che ancora puoi vedere le vecchie carrozze di quando c’era la guarnigione e al suk, in nemmeno mezza giornata, ti tagliano e ti cuciono uno shewal khemiz che nemmeno un Pashtun d’anagrafe.
Quando ci andai in quegli anni, con i sovietici che stavano di guardia dietro i cancelli bruni del Khyber Pass, i mujahiddyin che mi avevano portato dentro l’Afghanistan mi diedero l’addio, al mio rientro, regalandomi un pane di «afghano» (nella stanza dell’Hotel Pearl svuotai due pacchetti di sigarette e le riempii mescolando il tabacco con l’hashish che avevo sbriciolato dal pane. Mi andò bene, il cane antidroga quel pomeriggio poi di Fiumicino aveva altro per la testa).
E l’Afghanistan, che nello «Hippy Trail» era la meta vera – unica, e strasognata – del viaggio, la patria della «canna», il pozzo senza fondo della droga da comprare facile, oggi è off limits, e se vuoi la roba non c’è bisogno di seguire il «Trail», ne trovi quanta ne vuoi a Peshawar o anche a Meshad, dall’altra parte della frontiera iraniana, dove al suk ti vendono per 10 dollari una pipa intera di oppio.
Se vuoi, puoi comunque seguire ancora le orme di Tony e di Maureen, e farti il Nepal e l’India e arrivare fino alla onde bianche di Goa, alle sue chiese lusitane, alle sue spiagge nere e solitarie. Ma te ne verrà male, perchè a Katmandu o a Goa la tua strada non potrà non incrociare la mano tesa di qualche ragazza d’un Occidente lontano, smagrita dalla droga, ossa e pelle grigia, che ti offrirà quello che resta della sua anatomia per pagarsi ancora un «buco». E ti accorgerai che il «sentiero» non è più la pagina d’un vecchio libro che sa di malinconia agrodolce.
