“La controffensiva di Gheddafi. Bombe sui ribelli in Cirenaica”. Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera

Una storia di clan, rivalità tribali e tradizioni che si scontrano con la modernità, la tecnologia e la democrazia liberale: è anche questa la Libia di oggi, e da questi tratti è nata la rivolta che ha infiammato il Maghreb e i Paesi Arabi, dalla Tunisia all’Egitto, finendo ora per colpire Yemen e Bahrein.

Ma i legami tribali sono ancora più sentiti in Libia, dove sul questo retroterra ancestrale si innesta la questione del petrolio, come sottolinea il reportage dell’inviato del Corriere della Sera Lorenzo Cremonesi.

“Il simbolo della tribù dei Gheddafi è simile a una «I» in stampatello. Da secoli lo marchiano a fuoco sui cammelli, disegnano su tende e capanne, gli analfabeti lo fanno stampigliare sui documenti al posto della firma. Oggi è spesso dipinto sulle carrozzerie delle automobili. Lo stesso fanno con la loro «Q» gli appartenenti alla tribù rivale dei Maghrebi. Chi sta con gli uni evita gli altri, la coesistenza è difficile, carica di rancori reciproci. I matrimoni misti sono visti con sospetto dagli anziani, specie se vivono nel deserto.

«I» contro «Q» : una storia che narra di attriti antichi e che oggi è parte integrante della rivolta nelle regioni orientali contro il dittatore di Tripoli. La descrive bene Salah Zeidan, ingegnere meccanico 35enne impiegato sui pozzi petroliferi e incontrato ieri tra le casupole di Agheila mentre con il telefonino impartiva ordini ad alcuni camioncini armati di mitragliatrici contraeree e carichi di guerriglieri in movimento tra le dune poco distanti. «Le nostre due tribù hanno sempre avuto una coesistenza difficile. Ma con il colonnello Gheddafi la situazione è precipitata quando i suoi fedelissimi dalla zona della Sirte negli anni Novanta si sono impadroniti con la forza di migliaia di chilometri quadrati del nostro territorio. Ora finalmente i Maghrebi si vendicano. Combatteremo sino alla liberazione di Tripoli» , sostiene sorridente.

Rivoluzione politica per la modernità della democrazia liberale e ancestrali rivalità tribali, due dimensioni coesistenti nello stesso conflitto in Libia che aiutano a spiegarne le peculiarità molto speciali. Per raggiungere Agheila occorre andare oltre le zone contese della grande raffineria di Brega, dove mercoledì si è combattuta una violenta battaglia e dove ieri gli aerei da guerra del colonnello sono tornati a colpire. Per capire meglio è utile descriverne la geografia. Da Bengasi, in mano alle forze della rivoluzione sin dal 21 febbraio, necessita percorrere oltre 160 chilometri di comoda provinciale per arrivare alla cittadina di Ajdabiya, considerata la roccaforte militare più importante contro il pericolo di un’offensiva da parte di Gheddafi.

Da Ajdabiya mancano 80 chilometri per arrivare a Brega, dove ancora tre giorni fa iniziava la terra di nessuno. Gli scontri recenti paiono aver però mutato la situazione a favore della sommossa. I miliziani arrivati dalla Sirte, assieme ai mercenari africani pagati da Gheddafi che mercoledì mattina avevano occupato alcuni punti strategici di Brega, sono poi stati ricacciati verso ovest e ora l’immaginaria linea del fronte è spostata di almeno 60 chilometri. Ieri mattina le forze rivoluzionarie a Brega hanno dovuto fronteggiare l’aviazione di Gheddafi. Testimoni hanno riferito che un aereo da guerra ha bombardato il terminal petrolifero di Brega e due raid sono stati lanciati contro Ajdabiya. Una bomba, poi, è caduta vicino all’università d’ingegneria. «Ci sono stati blitz aerei -ha detto il capitano dei ribelli Bashir Abdul Gadr— per colpire le nostre forze» .

Verso mezzogiorno ci siamo inoltrati nella ex terra di nessuno incontrando solo guerriglieri della rivoluzione, tra loro tanti legati alla tribù dei Maghrebi. Ai lati della strada sono visibili una decina di camioncini carbonizzati degli uomini di Gheddafi. «Li abbiamo colpiti mentre scappavano» , sostengono gli armati appostati a pochi metri. Dopo 25 chilometri c’è il villaggetto di Bishar: qualche palma, casupole basse, greggi di pecore, un negozietto, la pompa di benzina e poco altro. Sono immagini che bastano da sole per descrivere l’aspetto per ora molto limitato di questa guerra. Per quello che possiamo capire, si combatte per lo più attorno alle grandi arterie di circolazione. I danni restano circoscritti.

Morti e feriti pare siano al momento relativamente pochi. Sebbene dopo ogni scontro di una qualche rilevanza popolazione e combattenti denuncino metodicamente massacri in grande stile, violazioni gravi dei diritti umani e violenze di ogni tipo. Difficile distinguere propaganda da realtà. A Bishar sino a domenica scorsa erano segnalate incursioni di perlustrazione da parte dei soldati di Gheddafi. Ora non più. Per arrivare alla nuova terra di nessuno bisogna invece viaggiare un’altra trentina di chilometri verso ovest e raggiungere Agheila. Qui la situazione ricorda quella di Brega sino a qualche giorno fa: pochi uomini appostati ai lati della provinciale, rare pattuglie guardinghe, il timore diffuso dei raid aerei e soprattutto di blitz improvvisi del nemico.

Siamo a oltre 300 chilometri da Bengasi, la linea dei rifornimenti fatica ad arrivare. Il capo della polizia locale, Sheikh Belkassem, 47 anni, appare ben contento di ricevere stranieri. «Italiani? Questo villaggio ha tanto da raccontarvi del vostro passato coloniale!» , esclama senza astio e sinceramente sorpreso. Poi sale sulla sua jeep e ci porta a visitare i resti del grande campo di concentramento voluto dal generale Rodolfo Graziani tra le dune che portano al mare. «Qui migliaia di libici persero la vita» , afferma mostrando i calcinacci corrosi dal vento, le tombe semisepolte dalla sabbia dell’immenso cimitero per i detenuti eretto 80 anni fa, i muri dei bunker, le macerie della vecchia base militare italiana. «Ma ora siamo amici. Inutile rinvangare. Occorre invece che il vostro governo aiuti a liberarci di quel pazzo criminale di Gheddafi» , aggiunge.

Cinque o sei chilometri più avanti i suoi uomini hanno posto sul selciato alcuni tubi di ferro e un barile di benzina bucato. Oltre nessuno può garantire nulla. «Sappiamo che le avanguardie di Gheddafi hanno organizzato un posto di blocco difeso da cannoni e tank alla città petrolifera di Ras Lanuf, un’ottantina di chilometri da qui. Ma potrebbero essere anche più vicini. Non sappiamo con precisione» , dicono indicando la distesa di dune e cespugli bassi che corre lungo la linea azzurrissima del mare sulla destra. Nel tardo pomeriggio, tornando verso Ajdabiya, si diffonde la voce che da Bengasi i nuovi comandanti militari della rivolta stiano organizzando di continuare l’offensiva verso Ras Lanuf e addirittura arrivare a Sirte nella speranza di congiungersi alla cittadinanza in rivolta a Misurata. «Gli uomini di Gheddafi sono demoralizzati. Speravano di poter tenere Brega, per poi mirare su Ajdabiya e minacciare Bengasi. Invece si trovano a dover difendere Ras Lanuf. Dobbiamo approfittarne e contrattaccare subito» , sostengono i fautori dell’offensiva. Ma non è affatto chiaro quanto tutto ciò sia realizzabile”.

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Published by
Maria Elena Perrero