ROMA – Blitz quotidiano vi propone come articolo del giorno di giovedì 2 aprile 2015 “Oscar che non vuole dimenticare i giorni al rugby prima dell’Alzheimer” di Michele Farina.
«Ieri ha perso gli occhiali» mi racconta al telefono Daniela, mentre è in coda in tangenziale. «Dopo un po’ che cerchiamo, gli faccio: “Non è che per sbaglio li hai buttati via?”. E lui: “Ma figurati”. Apro l’anta sotto il lavandino e li trovo lì, appoggiati alla spazzatura. Non volevo ferirlo, ma neppure raccontargli una palese bugia. Così ho detto: “Sì sono qui, Oscar. Non fa niente, ti saranno caduti. Capita anche a me”». Piccole accortezze quotidiane. «Ma a volte penso di non essere pronta. Ho 57 anni, lui ne fa 59. Gli dico la cosa che mi fa più paura: “Oscar, lo sai che un giorno non mi riconoscerai più?”. Lui mi guarda e sorride: “Non dire stupidate”».
Sono anni che frequento l’Alzheimer, eppure mi vien sempre facile sbagliare, fare domande imbarazzanti. La mattina in cui ho conosciuto Oscar, a un certo punto qualcuno — credo proprio Daniela — ha raccontato che lui aveva lavorato a lungo con il padre. Io allora gli ho chiesto che lavoro facesse. Silenzio. Gelo. Non se lo ricordava. Sono sprofondato. Fortuna che la moglie mi aveva parlato al telefono del suo amore per il rugby, e così sono riuscito a deviare il discorso sulla palla ovale. Oscar si è illuminato. Gli ho domandato se mi portava a una partita. E così siamo diventati amici.
Il rugby e Venezia sono le mete fisse che ancora sorvola con la memoria. È emozionante sentirlo parlare della sua esperienza di supporter-genitore-factotum all’A.S. Rugby Milano, dove ha seguito soprattutto i ragazzi. «Sono stati degli anni incredibili…».
Ogni volta può cambiarne il numero: i riferimenti temporali sono come boe senza ormeggio davanti all’amato Lido, dove Oscar ha trascorso l’infanzia, figlio unico di mamma veneziana e papà pugliese. Ma quegli anni del rugby sono sempre, invariabilmente, «incredibili». A volte quattro, altre sei; incespica nelle parole, ma non smette di raccontare: «Ho avuto la fortuna di conoscere benissimo questo ambiente. Persone pulite, meravigliose. Ci si randellava in campo ma poi si andava a mangiare insieme». Gli chiedi: «Cos’è il rugby per te?». E lui risponde: «Una casa». Ed è lo stesso uomo che fa fatica a cambiarsi e non rammenta di aver passato trent’anni a installare televisori con il padre Luigi.
Lui che da ragazzino amava il calcio ed era arrivato a giocare nella Primavera del Milan, adesso ha il chiodo fisso del rugby vissuto a bordo campo, come genitore e organizzatore. «Tante volte mi chiedono, magari le persone del quartiere, cosa possono far fare ai figli. Io direi a tutti di farli giocare a rugby. Domandano: “Ma non si fanno male?”. Ma no, andate a vedere. I piccoli sono ancora più belli. Si divertono. Si randellano e poi vanno a mangiare insieme. Trovano altre persone, amici. Le cose belle sono così… Veloci, voglio dire… Semplici. Questa è la vita, così devono essere fatte le cose».
A Oscar piacerebbe ancora stare nell’ambiente del rugby. Ma i figli sono diventati grandi e hanno smesso di giocare: Fabio, vent’anni, fa il cuoco ed è in partenza per Copenaghen; Simone, un po’ più grande, vive a Berlino. «Io potrei anche farlo ancora, però sono passati troppi anni. Le persone che conosco sono poche rispetto a prima, e quindi devo recuperare tutto. Io sono figlio unico, per me è importantissimo stare con le persone».
Purtroppo, invece, si trova a passare gran parte delle giornate in solitudine. A Daniela, che lavora in un grande magazzino, mancano dieci anni alla pensione. Così un malato fragile ma pieno di vita come Oscar si ritrova praticamente isolato a Milano, ogni giorno con qualche ricordo (e parecchi neuroni) in meno.
Isolato non perché lui e la moglie abbiano preso la malattia come una vergogna, qualcosa da nascondere. Al contrario. Oscar mi ha colpito anche perché è il giustiziere naturale dello stigma. Quanto avremmo bisogno, qui in Italia, di sani esibizionisti della demenza.
Per Oscar ci vorrebbe una piccola occupazione, un gruppo che lo coinvolgesse. Invece sta tutto il giorno da solo. E sempre più spesso non osa uscire. Un pomeriggio alla settimana viene suo cugino Omero, e insieme recuperano vecchie foto. Altrimenti è il silenzio, in attesa che Daniela esca dalla coda in tangenziale, possibilmente prima che l’esattore della malattia si porti via un’altra manciata di neuroni.
Quando gli chiedo se lo spaventa perdere la memoria, risponde: «Direi di no. A un certo momento le cose se non me le ricordo più, vuol dire che sono scivolate via. Ma quelle che ci sono state, si sono già attaccate». Spiegazione un po’ oscura, ma bellissima. Le cose della vita hanno già attecchito.
Un paio di domeniche vado con Oscar a vedere giocare il suo A.S. Milano al campo di Città Studi. Non lo dà a intendere, ma credo non riesca più a seguire il gioco. Partecipa a orecchio, andando dietro alle esplosioni di tifo in tribuna. Saluti e pacche sulle spalle: nel pubblico c’è chi lo riconosce, chi tradisce l’imbarazzo di non sapere che cosa dire, chi per fare una battuta simpatica lo abbraccia e gli sussurra «Guarda che ti porto alla Baggina». Lui sorride, saluta tutti.
Quando Daniela ha chiesto ai dirigenti della squadra — vecchie conoscenze del marito — se potevano inserire Oscar in qualche attività, per farlo stare in compagnia, le è stato chiesto se lui sapesse maneggiare i soldi. No, ovviamente. E allora niente. Daniela è tornata alla carica. Ora le hanno promesso che ci sarà un posticino per Oscar nel nuovo impianto da inaugurare vicino all’Idroscalo. Non voglio credere che il popolo del rugby non possa fare niente per uno dei suoi più incredibili ambasciatori.
C’è voluto un po’, prima che Daniela accettasse di condividere la loro storia. Ma quando si è decisa e mi ha spiegato che il marito ne parlava con tutti, ho chiesto a Oscar se potevo raccontare della sua vita in un libro, scrivere che ha l’Alzheimer. Mettendo, cosa più unica che rara, il suo nome e cognome. «Non c’è problema. Basta che parliamo anche di rugby».
Se solo un fiume di storie potesse aiutare a smuovere le barriere, sensibilizzare i politici, concretizzare i piani; far sentire meno soli un uomo come Oscar e con lui l’intero popolo dell’Alzheimer. Ecco il nostro cognome, uno per tutti, perché non c’è nessuna vergogna ad affrontare la demenza. Oscar e Daniela Selicato, non è ancora tempo di dire: «Andiamo a casa». Siamo tutti Selicato. Sono stati anni incredibili, come ripete sempre Oscar. E ce ne saranno ancora.