A chi dice che l’Italia è nel caos, che non si può più andare avanti così, che siamo allo sfascio, vorrei fare notare che l’Italia non è mai stata così bene, se ci sono dei pm che possono dedicarsi a leggere le cose dette al telefono da giornalisti; se il presidente della Confindustria per queste minacce dichiara letteralmente guerra, trascinandosi dietro una categoria che pensavamo sopraffatta da problemi come la competitività, il costo del lavoro, il pericolo giallo, se tutta la stampa italiana dedica colonne e colonne per informare il paese di queste varie…cose assortite.
Premetto che non conosco personalmente Alessandro Sallusti, anche se lo ritengo un ottimo giornalista e un eccellente polemista, ma devo anche confessare, sperando di non farmi altri nemici, che, quando Giulio Anselmi dirigeva l’Espresso e mi informò della sua intenzione di prendere Sallusti come vice direttore, gli feci notare che dal percorso professionale non mi pareva proprio, come dicono i cacciatori di teste, il profilo ideale per quel posto. Credo quindi di essere in grado di avere una posizione imparziale.
Non conosco personalmente Nicola Porro, anche se leggo i suoi articoli sempre con interesse, ma devo dire che è stato un po’ incauto a fare quella telefonata. C’era del sadismo, nella sua voce, che tradiva un crudele piacere a sentire il terrore nella gola dell’interlocutore confindustriale. Ma ha pagato abbastanza, forse troppo caro quel divertimento.
Avendo fatto per alcuni anni, alla fine dei ’70, il capo ufficio stampa della Fiat, ricordo bene la violenza degli attacchi che arrivarono sui giornali, in quegli anni, soprattutto dal Corriere della Sera e dintorni. Nessuno si prese mai la briga di preannunciarli. Erano bombe che ti scoppiavano tra le mani alle prime luci delle albe polari torinesi e poi uno, ma solo dopo, da Milano ti spiegava a mezza voce: “Ci hanno ordinato di attaccare perché hanno visto che ci date troppo poca pubblicità”, un altro: “Mi spiace, ma me lo hanno ordinato”, un altro ancora: “Vista la vostra reazione Tassan Din ha ghignato: siamo potenti”. Erano i tempi in cui direttore generale del gruppo del Corriere era Bruno Tassan Din, che esercitava poteri assoluti, forse per conto proprio forse in nome e per conto della allora ubiqua P2 (l’episodio precede la scoperta degli elenchi di Castiglion Fibocchi).
Un altro devastante attacco arrivò alla Fiat da un settimanale, diretto da un carissimo amico, l’articolo scritto da un carissimo amico, scoprii la fonte dopo vent’anni, ormai non serviva più, se non per ricordarmi che ci sono pochi grandi uomini che sfuggono alle bassezze delle coltellate alle spalle, delle delazioni, della vendetta.
Erano tempi bui, quelli, ma devo dire che era davvero altra gente. Altra stoffa, altro spessore, altra classe rispetto ai leader industriali di oggi. Spesso, guardando al passato, si è portati a dire “quelli erano giorni…”, però me ne considero indenne . Guardo solo ai fatti: con tutto quel che rovesciarono addosso alla Fiat e ai suoi vertici, mai gli Agnelli (Gianni e Umberto) o Romiti parlarono di andare in tribunale, al massimo ci furono delle sferzanti battute che non portarono molta fortuna all’Avvocato. Ma nessuno andò a piangere da mamma.
Eppure erano tempi molto più difficili di questi. Anni di terrorismo, anni di P2, ti potevano sparare all’alba in strada, ti potevano sparare sui giornali e non sapevi da chi guardarti. Le forze dell’ordine non avevano tempo di intercettare i giornalisti, c’erano ben altri pericoli: banditi tipo Vallanzasca, criminalità politica di Brigate rosse, Prima linea e affini.
Anche le tecnologie erano più semplici, anzi rozze, gli archivi delle squadre politiche della polizia o dei nuclei informativi dei carabinieri non avevano ancora visto l’alba dell’informatica, i telefoni cellulari erano di là da venire, c’erano ancora i vecchi telefoni col disco dei numeri, i centralini e gli scatti, i più fortunati avevano ancora quelli anteguerra con gli spinotti che consentivano di fare le conferenze, i “ponti” e alle operatrici ficcanaso di scoprire amori e corna, chi si voleva sentire importante diceva “brigadiere ha scritto bene?” pensando che in qualche punto della linea fosse inserito un poliziotto che ascoltava le sue scemenze, chi era davvero importante aveva in ufficio uno scrambler, l’aggeggio grosso quasi come una cassaforte che rendeva impossibile l’intercettazione, le cimici erano dei coleotteri giganteschi, uno lo trovarono nell’ufficio di un alto dirigente della Fiat ma nessuno capì mai chi l’avesse messo, l’ultimo chi ha memoria lo ricorda esibito da Berlusconi appena primo ministro: disse di averlo trovato nel suo studio, ma anche in questo caso nessuno seppe mai di chi fosse.
Leggendo giornali e siti in questi giorni penso che sono stato fortunato: ho detto tante di quelle sciocchezze al telefono che il povero Porro appare una educanda. Una volta mi fu detto di stare attento: dicevo troppe parolacce al telefono della macchina, quei primi analogici che facevano status sul cruscotto dell’auto e ne invadevano il bagagliaio con tutto l’equipaggiamento. Erano così facilmente intercettabili che i cronisti attrezzati con radio sintonizzabili sulle lunghezze d’onda speciali, per arrivare in tempo sui luoghi dei crimini, potevano ascoltare sghignazzando le telefonate della città che contava.
Più emergono i ricordi più penso con un brivido se mi capitasse oggi l’episodio che non ho mai raccontato a nessuno, di una volta che telefonai a Indro Montanelli, che all’epoca dirigeva il Giornale, da lui fondato. Non ricordo cosa avesse scritto ma ricordo che non piacque a Cesare Romiti. Così fui istruito di trasmettere a Montanelli il suo malumore. Niente di straordinario: i capi parlano per dire cose belle, il lavoro sporco ti assumono apposta per farlo.
Montanelli la prese male e di disse: “In tanti anni ne ho viste e sentite tante, ma mai di essere trattato da caporale”. Capii che avevo trasferito il messaggio troppo alla lettera, in modo troppo maschio. Non ebbi il coraggio di riferire a nessuno le parole di Montanelli. A Romiti dissi solo che Montanelli non aveva gradito, la lezione mi era servita, mi ero fatto furbo.
Grazie al Cielo nessuno era interessato alle cose che dicevamo o se lo era non aveva molti mezzi per soddisfare la curiosità.
Spero solo di non dirne troppe, di sciocchezze, ora, in grige chiome, al cellulare, al telefono fisso, nemmeno in bagno, non si sa mai…
(Marco Benedetto)