Vittorio Zucconi racconta su Repubblica l’esperienza di una giornata al volante della prima 500 Fiat mai vista nel cuore di Manhattan.
Le Fiat, prima di una prudente ritirata per inadeguatezza tecnologica,  furono vendute in America fino a un quarto di secolo fa, e il nome della Fiat e l’icona di Gianni Agnelli erano popolari al punto che una volta, su un volo di linea New York – Chicago, la hostess, riconoscendo l’Avvocato, gli chiese: “Are you the man from Fiat?” (è lei quello della Fiat?).
L’articolo di Zucconi individua così il nodo dell’impresa della Fiat amerikana, una specie di ritorno al futuro in condizioni peraltro decisamente migliori di una volta: “Sfidare la città più sfacciata del mondo al volante  dell’automobilina più timida del mondo è la perfetta metafora del “folle volo” che la Fiat ora Chrysler, o Chrysler ora Fiat, si prepara a lanciare all’America delle immense altezze e della infinite distanze, dove mille chilometri in autostrada sono una gita fuoriporta e cinque litri di cilindrata per sette posti a sedere sono la vetturetta di famiglia. Eppure, se questa pallina di gelato bianco metallizzato ha una speranza di farcela quando sarà messa in vendita all’inizio del 2011, è qui, tra i ciclopi di Park Avenue, nei budelli puzzolenti di pesce fradicio di Chinatown, nello snobismo autoreferenziale del Village, nei canyon metropolitani della Quinta, nell’universo alla “Seinfeld”, alla Woody Allen, o alla “Sex and the City” solleticando la fantasia viziata dei bamboccioni e delle bamboccione metropolitani”.
L’articolo è magistrale, da “Articolo del giorno” ma è doverosa una più ampia menzione, perché Zucconi evita il rischio di una mega marchetta: Fiat è uno dei primi inserzionisti di pubblicità in Italia e poi vale quel poco di orgoglio nazionale residuo, visto che in guerra è meglio averci come avversari e ormai sembrava che la gloria italiana fosse affidata ai ristoranti (davanti a uno dei quali Zucconi peraltro conclude il suo tour) e alle mutande di quelli della moda.
Zucconi riesce invece a essere anche cattivo, quando racconta: “Esce dalla “grosseria” Di Palo, l’ultimo alimentari italiano vero nella Little Italy ormai cinese, Lou, il padrone. “Bella, Fiat?”. Fiat. “L’ultima volta che ero in Italy ho noleggiato un furgon [proprio così, furgon] Fiat e mi ha piantato sull’autostrada come un coglion”. Sento qualche prevenzione”. O quando cita il “passante di mezzo età abbondante” che ricorda sorridendo: “Avevo una 128 Fiat” e, commenta Zucconi, “il fatto che mi sorrida, visto il ricordo di quel disastro anni 70, mi conforta sulla capacità umana di perdonare”.
L’origine modenese e certe assonanze mediorientali fanno di Zucconi, uomo di vastissime attente letture, una persona molto esperta in materia di economia, anche se nasconde la competenza, forse per non pagare dazio, sotto quell’accento emiliano che inganna e uno stile giornalistico facile e in apparenza disimpegnato. C’è chi sostiene che ne capisce di molti altri.
Lo provano queste parole: “La 500, senza speranza sulle grande distanze del Midwest e della Prateria”, ha invece chances “nel caos megalopolitano di Los Angeles, Chicago, New York, Miami”.
Riesce a cavarsela anche ai confini dell’osceno (ma non blasfemo), quando rende la domanda “What the fuck is it…?” di un autista di limousine, “scurrile”, con “ma checcazzè ‘sta cosa”.
L’articolo è tutto da leggere, a partire dall’inizio: “Sta, bianca e rotondetta sull’asfalto di Park Avenue, come una pallina di gelato di crema caduta dalle mani di un bambino di cemento enorme e sbadato. Ho paura che mi si squagli sotto il sedere o che uno dei grattacieli attorno a me si curvi come in un cartoon disneyano per raccogliere dal pavimento la prima Fiat 500 mai vista a New York e per buttarla via, dopo avere rimproverato il bambino”.
