di Vincenzo
Ho due figlie che frequentano le scuole elementari a Bologna. Nella classe di una di loro c’è sempre stato, sin dalla prima, qualche alunno straniero. Il rapporto fra i bimbi è sempre stato, almeno finora, libero da pregiudizi (le prime domande sul perché della differenza riscontrabile in alcuni comportamenti sono abbastanza recenti, quinta elementare), anche se, a dire il vero non c’è una diffusa frequentazione «extrascolastica» (attività sportive, oratorio e così via), per tanti motivi. Tuttavia, la cosa che più mi fa riflettere è che la proporzione «bimbi italiani/stranieri» non è uguale dappertutto.
Nello stesso quartiere, ad esempio, c’è un’altra scuola nota per l’elevata presenza di bimbi extracomunitari. Sta diventando man mano un piccolo ghetto. E’ una spirale. I genitori italiani sanno che in quella scuola c’è un’elevata concentrazione di stranieri, temono per la velocità di apprendimento dei propri figli, li mandano presso altre scuole più lontane; i genitori dei bimbi stranieri, invece, fanno prevalere il fattore «vicinanza logistica», aumentano gli iscritti stranieri presso la stessa scuola. La cosa rischia di ripetersi, lentamente, alle medie. Per evitare che poi a qualcuno vengano in mente idee poco accettabili, quali le «classi ponte», non sarebbe il caso di prevedere per tempo qualche politica «anticipatrice»? Per esempio, perché non imporre a ciascuna scuola, nell’ambito di accordi comunali o intecomunali, di ospitare nelle proprie classi un minimo di bimbi stranieri, accettando che il Comune si addossi il costo del trasporto per coloro i quali dovessero essere assegnati a una scuola non proprio vicinissima a casa? L’inserimento avrà effetti diversi (forse per alcuni versi non facilissimi per il bimbo), ma almeno si evita il «ghetto», si attenuano le prevedibili lamentele degli italiani, si favorisce l’apprendimento di tutti. Qual è il costo maggiore per la società, quello del bus o quello di «affrontare» gli effetti di una scarsa integrazione?